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What’s in my bag: edizione apocalisse

Qualche giorno fa ho finito la serie tv The Last of Us, ispirata al famoso videogioco, e che sta spopolando ovunque, rendendo l’attore Pedro Pascal la crush di qualsiasi essere umano bazzichi l’internet. E come non essere d’accordo…
Tuttavia, oltre ai pregi e difetti della serie, sono molto contenta che TLOU abbia toccato con poche e semplici scene una tematica importante: il ciclo mestruale in situazioni disagianti, quale potrebbe essere un apocalisse “zombie”.

Un recap delle scene in questione – tranquilli, non ci sono spoiler, anche perché ho la memoria di un pesce rosso.
Nell’episodio 3, durante una perlustrazione alla ricerca di armi e cibo, Joel avverte Ellie che la speranza di trovare qualcosa di utile è bassissima. Ellie, però, è testarda: scende in uno scantinato… ed effettivamente non c’è nulla di valore adeguato a sopravvivere agli Infetti. Nulla, fatta eccezione per una scatola di Tampax. Ellie sgrana gli occhi, esulta e se la mette nello zaino. E’ stato in questo momento che ho pensato: ah… beh, ha senso…

Nell’episodio 6, invece, Ellie e Joel ritrovano un po’ di normalità all’interno di una comune. Qui ricevono cibo, un letto in cui riposarsi. Dopo una doccia rigenerante, Ellie trova sul letto un pacchetto: dentro c’è una coppetta mestruale, con tanto di foglietto illustrativo. Ellie è divertita, forse perché non ne ha mai vista una, la telecamera scorre sui disegni che mostrano come piegarla e inserirla.

Sono rimasta piacevolmente colpita da questi pochi minuti di filmato, che però hanno un grande impatto sullo spettatore – e soprattutto sulle spettatrici. In primis, la rarità di vedere rappresentato nei media – film o romanzo che sia – il ciclo mestruale. Rettifico: rappresentato in modo serio, il che non significa necessariamente pesante e didascalico. Infatti, spesso il ciclo viene utilizzato come diversivo: il ciclo o la la PMS portano al malumore, a voglie dei cibi più disparati, attacchi emotivi, figure imbarazzanti in pubblico.
E sì, c’è anche questo, non sono “falsi miti” – anzi io stessa rivendico il mio “inalienabile diritto alla lagna”… ma questi eventi sono spesso trattati in chiave comica.

Di rado si parla di ciò che c’è attorno al ciclo. Come si gestisce il ciclo? Che tipo di assorbenti acquistare, quanti ne servono al giorno? Se siamo in un luogo pubblico e scopriamo di non averne in borsa? Quando prenotare le vacanze? Tutte queste domande costituiscono il substrato della quotidianità, e non penso di esagerare quando dico questo. Con il tempo e con la pratica ci si abitua a non farsi prendere dall’ansia da ciclo, ma il pensiero è sempre lì: quando ci alziamo e diamo uno sguardo fugace alla sedia, quando usciamo e mettiamo un assorbente nel taschino della borsa, perché il ciclo mi verrà tra una settimana, però non si sa mai.

Al momento, la maggior parte di noi vive in una società ben fornita e “gestire” il ciclo è facile. Ma cosa succederebbe se ci fosse un apocalisse zombie, come quello presentato in The Last of Us? Lo scenario è esagerato, e tuttavia simbolico. Come gestire il ciclo in caso di guerra, quando magari non ci sono negozi, quando le materie prime per produrre gli assorbenti scarseggiano? Il ciclo non si ferma e bisogna trovare una soluzione.

Parlando di scenari “esagerati”, mi vengono in mente numerosi prodotti di intrattenimento (che non volevano insegnare nulla sulle abitudini igieniche dei personaggi), in cui però a volte questa domanda ha fatto capolino nella mia mente. In Hunger Games, per esempio: immaginate che sfiga se il ciclo capitasse proprio nella settimana in cui c’è una possibilità su 24 di morire. Tra i doni offerti dagli sponsor forse ci sarebbe dovuta essere una confezione di Tampax o una coppetta.
Quante storie di eroine ci sono nel genere YA, scappano dalle prigioni, rubano ai ricchi, salvano intere nazioni… ma anche loro avranno avuto il ciclo nel corso della trama, no? E io invece sono qui, a chiedere alla mia amica di camminare qualche passo dietro di me e farmi cenno se è tutto a posto.

Qualcuno potrebbe affermare che la fiction esiste per un motivo ben preciso, ovvero per rifuggire i noiosi problemi della quotidianità. Nella fiction non valgono le regole del mondo reale, e di questo il lettore o lo spettatore ne è consapevole. E sinceramente, lo accetto: d’altra parte è raro che in un romanzo venga messa a verbale ogni volta i personaggi vanno di corpo. Insomma, un po’ di privacy.

Però. Però, sulla questione ciclo penso che ogni tanto faccia piacere che se ne parli. Il ciclo non è un’esperienza comune e per questo motivo è ancora “ghettizzato”, e non solo per motivi di “privacy”, ma perché… fa un po’ senso? Ma certo, ragazzi, non è che disquisisco di ciclo ogni giorno con le mie amiche, non è proprio un argomento di conversazione, ma senza che se ne parli, come si fa a fare informazione? Senza le pubblicità degli assorbenti, senza un personaggio femminile che allo scadere delle 8 ore deve cambiarsi, come si normalizza questa cosa… che dopotutto è normale?

Per questo motivo ho apprezzato le scene inserite in TLOU, scene poco invadenti e perfettamente in linea con il personaggio. Il senso è questo: The Last of Us parla di zombie, pandemia, legami famigliari e di Ellie, una ragazzina che, tra tutte le cose che fa, ha anche il ciclo. Fine.
E’ un po’ come la nostra vita: siamo donne, “facciamo cose, vediamo gente” e abbiamo anche il ciclo – non è un’esperienza totalizzante, ma neanche da ignorare. Non affrontare la questione è come ignorare che anche i vip facciano la cacca (pardon my French): semplicemente stupido.

Due scene in cui compaiono degli assorbenti non cambiano nulla per la maggior parte delle persone, ma aggiungono un certo spessore e portano le spettatrici a riflettere: mmh… in effetti, oltre al cibo, mi servirebbe anche qualche assorbente.
Anzi, potremmo eleggere la coppetta mestruale, “svelata” nell’episodio 6, come lo strumento perfetto per gestire il ciclo in situazioni di restrizione. Qualcuno aveva già avuto questa illuminazione? Perché io no.

Alessia

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Il giro del mondo in 20 ricette (e un videogioco in 48 ore)

Quando: 3-5 febbraio 2023
Dove: tutto il mondo



Lo sapevate che una volta all’anno si tiene un evento mondiale che chiama a raccolta appassionati di videogiochi da tutto il mondo? Oggi vi porterò con me alla scoperta della Global Game Jam! Quest’anno è stata la mia prima volta e ho tanti bei ricordi freschi da condividere.

La Global Game Jam è un evento annuale (fine gennaio-inizio febbraio) e vi partecipa gente con ogni sorta di talento, uniti da una particolare ambizione: creare un gioco nell’arco di un weekend (definizione tecnica: jammare). La fauna della Jam: programmatori con i loro codici colorati, illustratori, musicisti che usano gli oggetti più disparati per creare effetti sonori. E poi, anche qualche persona che si è imbucata… quella persona ero io.

In realtà, non mi trovavo lì per caso: sono specializzata in traduzione dei videogiochi e volevo conoscere altre persone “del mestiere”, unendo l’utile al dilettevole, come si suol dire. Su suggerimento di amici e dopo un forte auto-convincimento, mi sono iscritta all’evento della GGJ organizzato dall’associazione Game Art Dev di Bari. Non avevo abilità tecniche da offrire, forse solo la mia mia creatività e la passione per la traduzione, magari per creare un gioco sia in inglese e che in italiano. Ma temevo che mi sarei sentita un pesce fuor d’acqua e dicevo ai miei amici: “vado a vedere cos’è sta Jam, ma poi torno a casa”. Little did I know….

La GGJ si è tenuta dalle 19 di venerdì alle 17 di domenica: più o meno 48 ore per creare un gioco che funzioni. Vi sembra poco tempo? Beh, lo è. C’è chi sceglie di rinunciare al sonno per portare a termine il lavoro, chi invece decide di volare basso con un’idea semplice, cercando di conquistare quelle 5 ore di riposo a notte. L’importante è incontrarsi in una delle sedi, fare team, creare e divertirsi.

Il tema della Jam di quest’anno era “RADICI”, e ognuno era libero di interpretarlo in qualsiasi senso volesse, o anche di fregarsene e creare qualcos’altro. Gli organizzatori di Bari sono stati molto disponibili, trasmettendo la voglia di essere lì a godersi l’esperienza (senza pagare o vincere nulla) e offrendo pranzi a base di focaccia e mortadella, alla barese maniera. Al blocchi di partenza, dunque.

La prima fase della Jam è quella della formazione dei team. Alcune persone si conoscevano già, ma molti altri erano lì tanto sperduti quanto me. Appena è stato dato il via, mi sono voltata verso i miei vicini e in un istinto di sopravvivenza ho detto: vi va di lavorare insieme? In pochi minuti abbiamo creato un team con 3 sviluppatori, 3 modellatori 3D, 1 musicista e me, una linguista. Gli ingredienti c’erano tutti.

Giorno 1: brainstorming. Cosa vi fa venire in mente la parola “radici”? Ognuno aveva un’idea diversa: le radici degli alberi, quelle da mangiare come le carote, oppure quelle culturali. Da un’idea ne nasceva un’altra, andavano a mergersi e a migliorarsi, finché non siamo giunti a una conclusione. Forse era la fame (nel frattempo era arrivata l’ora di cena), ma abbiamo scelto di parlare delle radici culturali attraverso il cibo, inserendo nel nostro gioco tutti quei cibi che appaiono strani e insensati (come la pizza con l’ananas), ma che invece hanno una precisa ragione. Ragioni stravaganti, spesso politiche. Le origini dei cibi ci avrebbero condotto alle radici dei popoli.

Giorno 2: sveglia presto e alle 9 eravamo già operativi. Con l’idea chiara in mente, dovevamo pensare a come realizzarla. Quale sarebbe stata la dinamica di gioco? Un platform? Una visual novel? Che stile avrebbe avuto la grafica? Quanti tasti sullo schermo? Quali parole usare per raccontare la storia di questi cibi?
Tutti hanno lavorato intensamente e a me pare ancora una magia vedere sullo schermo dei modelli 3D a forma di kebab realistico. Oppure, pensare che (moltissime) linee di codice alfanumerico possano trasformarsi in immagini e parole sensate. Meglio lasciare i segreti agli esperti, io mi godo l’effetto stupore.

Io mi sono occupata di fare ricerche e scrivere le descrizioni dei cibi in inglese e italiano. La fase di ricerca è stata molto interessante e delicata: certo, era “solo” un gioco, ma non potevamo rischiare di diffondere false informazioni. Inoltre, come abbiamo presto imparato, tutte queste ricette “strane” che stavamo raccogliendo erano strane per una ragione: derivavano dall’incontro di più popoli, di solito per immigrazione e colonizzazione… dunque il fact checking doveva essere quanto più accurato possibile.

Giorno 3: eravamo avanti sulla tabella di marcia. Tutti i testi erano scritti e tradotti, tutti i disegni consegnati. Il codice, quasi completo. Stavamo cantando vittoria… ma forse era troppo presto. Quando abbiamo iniziato a unire i lavori di tutti in un unico grande progetto, ci siamo resi conto di quanto fossero vicine le 17, orario in cui tutti i giochi dovevano essere caricati sul sito della GGJ. La stanchezza e le ore passate davanti allo schermo iniziavano a farsi sentire e tutto l’hype che avevo provato fino a quel momento è iniziato a calare quando abbiamo riscontrato problemi tecnici. Il bello della diretta, e in generale della programmazione a quanto pare.

Tranquilli, questa è una storia a lieto fine: i programmatori sono riusciti a scovare i maledettissimi bug e far funzionare tutto, la Jam era salva! Alla Jam di Bari sono stati creati ben 5 giochi, 5 idee diverse per trama e stile. Pensate dunque a quanti nuovi piccoli giochi esistono nel mondo oggi rispetto a 3 giorni fa. Impressionante, vero?

Tempo di svelare il nostro gioco!

La cultura affonda le proprie radici nel cibo… ma vi siete mai chiesti le origini delle diverse ricette

Si chiama “Foods & Roots” ed è un drag-and-drop. Il giocatore vedrà di volta in volta l’immagine di una pietanza con il nome e dovrà posizionarla correttamente sul globo terrestre. Venti ricette, cinque tentativi ciascuna e un sistema di indirizzamento: se si clicca sul Paese sbagliato, si leverà un vento che punterà nella direzione giusta, la cui intensità debole-media-forte indicherà quanto lontano è l’obiettivo. Pensate sia facile? Allora non avrete problemi nell’indicare il Paese di origine della pizza con l’ananas…

Il gioco è disponibile sulla pagina ufficiale della Global Game Jam e scaricabile su PC. Ѐ un gioco molto interessante (sono di parte, eh), perfetto da giocare sia da soli che con gli amici per cercare di azzeccarne il più possibile. Mi farebbe molto molto piacere leggere un vostro parere qui nei commenti. L’impegno è stato tanto, il tempo limitato, il risultato sicuramente imperfetto, ma noi siamo molto fieri del risultato!

Tre giorni fa nulla di tutto questo esisteva. Non esisteva neanche che io mi iscrivessi da sola ad un evento nel quale c’entravo molto poco… e sono contenta di averlo fatto. Ho assistito alla creazione di qualcosa di cui sono parte anche io. Senza di me, e senza ognuno degli altri membri del team, sarebbe uscito un gioco diverso: questo determinismo lo rende ancora più speciale.

Sarà scontato da dire, ma maybe the real treasure is the friends we made along the way. Abbiamo lavorato a stretto contatto per ore e ore, tutti concentrati su un obiettivo comune. Dall’essere sconosciuti al prendere confidenza, mangiare insieme pranzo e cena e scoprire interessi in comune, dare e ricevere consigli di lavoro e di vita. Ho conosciuto persone che sono davvero brave in quello che fanno e per tre giorni siamo diventati amici, poi il resto si vedrà (ora che ci penso, questa situazione mi fa venire in mente la trama del film Queen).

E’ un’esperienza che rifarei. Avrei sempre un po’ di paura? Sì, ma penso che mi convincerei di nuovo ad andarci. Chissà, magari anche partecipando a Jam in altre città d’Italia o d’Europa, le possibilità sono davvero tante. Buon gioco a tutti e spero che parteciperete alla prossima Jam, ovunque voi siate!

Crediti al team di “Foods & Roots” (chissà se incontreranno mai questo articolo sull’Internet): Alberto Putignano, Alessia Schiavone, Federica Asia Zambetta, Lucia Patrono, Stefano Romanelli, Stefano De Robertis, Stefano Sanitate, Riccardo Reina

Alessia

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La tranquillità del ciottolo

Una delle frasi meme che più mi fanno ridere, e che trovo particolarmente utilizzabile anche nella vita reale, è una citazione da Phineas e Ferb, che forse avrete già letto in giro e dice: if I had a nickel for every time [a thing happened], I’d have two nickels, which isn’t a lot, but it’s weird that it happened twice. Proprio in virtù di questa frase meme, mi sono convinta a scrivere l’articolo di oggi, perché per ben due volte mi sono ritrovata di fronte a una metafora che avesse a che fare con… i ciottoli.

Ma perché i ciottoli? Spesso ho trovato il ciottolo utilizzato come metafora per rappresentare uno stato di quiete e immobilità pacifica e, per quanto possa sembrare strano – addirittura un po’ da svitati – credo che di tanto in tanto faccia bene immedesimarsi in questo ciottolo ideale.

Faccio un passo indietro e vi do un po’ di contesto per questa riflessione. Da un anno pratico yoga quasi tutti i giorni. Mi alleno a casa e – lo ammetto con sincerità e con fierezza – di solito lo faccio in pigiama prima di andare a dormire. Lo yoga per me ha rappresentato la svolta nella mia attività fisica. Ho sempre voluto allenarmi, ma odiavo andare in palestra e anche gli allenamenti in casa con le serie di addominali e squat proprio non facevano al caso mio… non sono mai riuscita a superare la prima settimana.

Poi, ho scoperto lo yoga. L’ho scoperto in un momento in cui cercavo un modo – qualsiasi modo – per allentare il nodo che provavo in gola e in petto. Ho iniziato a seguire il canale Yoga With Adriene, che consiglio vivamente, qualunque sia il vostro livello di preparazione fisica. Ho imparato ad amare lo yoga e a divertirmi ogni volta che mi srotolavo il tappetino e avviavo la lezione.

Come dice sempre Adriene, the hardest part is showing up on the mat, la parte più difficile è proprio quella di prendere il tappetino, srotolarlo a terra e presentarsi a lezione. Penso spesso a questa frase, decontestualizzata. La parte più difficile nella vita è presentarsi ed essere presenti, che è anche la parte più importante… nelle nostra relazioni con noi stessi e con gli altri. Nessun gesto vale di più della presenza.

Fatto questo, seduti sul tappetino, lo yoga è lo sport più facile del mondo. E non perché sia facile a livello pratico, ma perché con gentilezza si adatta ai corpi di tutti. Lo yoga è una pratica gentile, fatta di introspezione e di respiri profondi, di momenti in cui ci si ripiega su se stessi e altri in cui si tira in alto la testa per guardare con l’occhio della mente qualcosa da raggiungere. Inoltre, una cosa bellissima che ho notato è che lo yoga non mi stanca, non mi fa faticare e per questo è possibile allenarsi anche mezzora ogni giorno e vedere i risultati.

Certo, ogni tanto un minimo ci si sente tirare e bruciare i muscoli, ma tutto in amicizia! Nonostante non faccia soffrire, vi posso garantire che lo yoga ha i suoi effetti: adesso ho dei bei bicipiti (e quando sono davanti allo specchio, mi diverto a flexarli ridendo come una scema), riesco a tenere i plank per molto più tempo e a toccare ben oltre la punta dei piedi. Dette così, sembrano cavolate, ma sono soddisfazioni e prima di ridere della mia scarsa flessibilità… provate voi a toccarvi la punta dei piedi e vediamo un po’!

Ci sono anche benefici per la mente e l’umore. Lo yoga pone molta enfasi sulla respirazione e così, quando mi rendo conto di star respirando in modo “superficiale” o di star trattenendo la tensione in qualche parte del corpo, mi prendo un attimo per fare dei respiri profondi. Non è magia, è solo maggior consapevolezza. Respirare più profondamente non cura l’ansia, ma aiuta a sopportarla. Lo yoga aiuta a guardare la situazione dall’esterno e prendere tempo: molte volte quando ero turbata ho scelto di smettere per un attimo di pensare e di fare una sessione di yoga per concentrarmi sugli esercizi e sulla respirazione e mettere un po’ di distanza tra me e quella preoccupazione.

Infine, lo yoga mi fa sorridere. La parte migliore è la fine dell’allenamento, che si solito finisce distesi a pancia in su. Allora, prende il sopravvento una parte infantile di me (anzi, forse una parte che nemmeno da bambina facevo uscire, visto che avevo paura anche di fare le capriole), e inizio a rotolarmi all’indietro o a provare qualche posizione particolare che ancora non mi riesce, prima di ribaltarmi malamente per terra. E mi viene da ridere, da sola nella mia stanza, mi sento felice di usare il mio corpo in questo modo.

Ma tutto questo… cosa c’entra con i ciottoli? Una delle posizioni che non mi aveva mai ispirato era la posizione del fanciullo o balasana. Ci sono diverse varianti di questa posizione e quella che preferisco è la versione estesa, con le braccia in avanti (figura 1), mentre quella che non mi piaceva era la posizione del fanciullo tradizionale, con le braccia tirate indietro (figura 2).

La posizione tradizionale, a destra, non mi piaceva finché, durante una lezione Adriene (la ragazza dei video di cui parlavo prima) non ha fatto un paragone proprio con un ciottolo. Disse qualcosa di simile: immaginate di essere un ciottolo sulla riva di un lago e di sentire le onde leggere che accarezzano il vostro corpo seguendo il ritmo del respiro. Al sentire queste parole, ho immaginato la scena e per la prima volta ho visto un senso in questa posizione, che fino a quel momento non mi aveva trasmesso nulla.

L’idea di essere un ciottolo che se ne sta semplicemente lì, immobile. Rimanere così per una manciata di secondi, con la testa china sul tappetino e il rumore del proprio respiro che si risuona nello spazio tra il volto e il petto. Le braccia lungo i fianchi, tirate indietro, quasi a volersi arrotondare nella forma di un ciottolo. Con l’occhio della mente, immagiamo di essere un ciottolo senza pretese, senza scadenze, senza aspettative.
Può sembrare deprimente, ma in realtà è un pensiero che dona tranquillità. Certo, la vita deve andare avanti, ma per un attimo ci si può rivolgere dentro se stessi (letteralmente a livello fisico) e ascoltare il silenzio attorno, percepire il tempo che passa e capire che non accade nulla di spaventoso se ci fermiamo per un po’, al contrario di quanto crediamo di solito, tutti presi dal fare. Che non stiamo rimanendo indietro da nulla, che siamo lì dove dobbiamo essere in quel momento.

La seconda volta che ho incontrato una metafora sui ciottoli è stato per lavoro. Infatti, ho collaborato alla traduzione italiana di un videogioco che si chiama Froggy Pot (e se siete arrivati a leggere fin qui, credo che quel gioco faccia al caso vostro). La protagonista di questo gioco è Froggy, una ragazza vestita da ranocchia, che si trova a mollo in una pentola che pian piano inizia a bollire. Chiara ispirazione è la cosiddetta “sindrome della rana bollita”, descritta da Peter Senge:

Se mettiamo una rana in acqua a temperatura ambiente rimarrà calma. Quando la temperatura sale da 21 a 26 gradi Celsius, la rana non fa nulla e sembra persino divertirsi nell’acqua. Con l’aumentare della temperatura, la rana è sempre più stordita e alla fine non riesce più ad uscire dalla pentola. Anche se nulla lo impedisce, la rana resterà lì e morirà bollita.

Questo gioco racconta le paure di Froggy nel sentirsi inadeguata, la difficoltà nel reagire dopo la morte di una persona cara, così come la felicità che ci possono dare le piccole cose. I pensieri negativi, come acqua che bolle lentamente, paralizzano Froggy. Il giocatore, che ha la possibilità di guardare con occhio critico questa situazione dall’esterno, può aiutare Froggy a capire che non tutto è perduto e che può ancora uscire dalla pentola e vivere, un giorno alla volta, senza paragoni o pretese.

E a un certo punto, il gioco dice così:

La prima volta che incontrai queste frasi, mi parve bizzarro. Ecco il mio secondo nichelino, che non è molto, ma è strano che sia capitato due volte, no? Ci deve essere qualcosa in questo famoso ciottolo che ispira serenità. Anche la parola stessa… ciottolo… quanto è bella, una parola da abbracciare.

Ogni tanto, quindi, penso ai ciottoli sulla riva di un lago o di una spiaggia e l’immagine mi trasmette calma. Spero che anche per voi sia così. Spero di aver condiviso con voi questa prospettiva curiosa che già altre persone avevano percepito e trasmesso, ognuno attraverso i propri mezzi, come una lezione di yoga o un videogioco. Il mondo è davvero piccolo e a volte percepiamo le stesse cose, anche se siamo persone diverse in luoghi diversi.

Vi invito a dare una chance allo yoga, come sport, come passatempo, come antistress: può essere qualsiasi cosa vi serva, ma sono sicura che aggiungerà qualcosa di valore alle vostre giornate. E vi consiglio anche di giocare a Froggy Pot accompagnati dalla traduzione italiana del mio team di lavoro :D

Alessia

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La leggenda di Aang: tornare bambini per diventare adulti

Acqua, Terra, Fuoco, Aria.
Molto tempo fa nel mondo regnava la più completa armonia, poi tutto cambiò quando la nazione del Fuoco decise di attaccare. Solo l’Avatar, padrone di tutti e quattro gli elementi poteva fermarli, ma quando il mondo aveva più bisogno di lui scomparve.

È così che inizia una delle migliori serie animate che io abbia mai visto. Sto parlando di Avatar: La leggenda di Aang (anche conosciuta con il titolo inglese Avatar: The Last Airbender). Forse qualcuno la guardava da bambino sui classici canali di cartoni animati. Io, invece, l’ho scoperta solo di recente: evidentemente ho vissuto la mia infanzia sotto una pietra, perché sono anche una delle poche a non aver mai usato MSN...

Avatar: La leggenda di Aang è ambientato in un tempo passato e in un mondo fantastico, costituito (in tempi di pace) da quattro nazioni: la tribù dell’Acqua, il regno della Terra, la nazione del Fuoco e i nomadi dell’Aria. Oltre alla gente comune, in questo mondo esistono alcune persone speciali che possiedono il cosiddetto dominio, ovvero riescono a controllare uno dei quattro elementi naturali. L’equilibrio tra gli elementi assicura la pace, ma quando uno di essi prende il sopravvento, il mondo cade nel caos.

I dominatori possono controllare solo l’elemento corrispondente alla propria nazione, ma esiste un dominatore in particolare, uno solo nello spazio e nel tempo, che invece può dominare tutti e quattro gli elementi: l’Avatar. La parola “Avatar” significa incarnazione di una divinità e l’Avatar è proprio questo: un dio potente che mantiene in equilibrio il mondo, ma allo stesso tempo è anche umano, un uomo o una donna che vive tra la gente comune. Inoltre, l’Avatar è sempre e solo uno, lo stesso spirito che si reincarna all’infinito.

All’inizio della serie il mondo è nel caos: la nazione del Fuoco vuole conquistare il mondo e già i nomadi dell’Aria sono estinti. Il leader supremo non si accontenta di invadere gli altri territori, ma vuole trovare l’Avatar, così da controllare tutti gli elementi ed essere invincibile. Unico problema: l’Avatar sembra essere scomparso da quasi 100 anni… ma un giorno, mentre i fratelli della tribù dell’Acqua, Katara e Sokka, sono alle prese con i loro bisticci, si imbattono in un uno strano iceberg in cui riposa Aang, l’ultimo dominatore dell’Aria superstite. L’Avatar.
Aang è ancora un ragazzino – nonostante i 100 anni di ibernazione e i suoi centinaia di anni di vite passate – ma conosce il destino che lo aspetta: riportare equilibrio nel mondo.

In questa impresa non sarà solo! Con lui ci saranno la dominatrice dell’Acqua Katara e suo fratello Sokka (just a guy with a boomerang), insieme ad Appa, il bisonte volante sul quale viaggeranno. Purtroppo il trio sarà accompagnato anche da un altro, più sgradevole compagno di viaggio: Zuko, erede al trono della nazione del Fuoco, diseredato e alla ricerca disperata dell’Avatar proprio per riscattare il proprio onore. Aang dovrà prima di tutto imparare a dominare gli altri elementi e, solo quando sarà pronto, mettere fine alla guerra. Tra uno scontro e l’altro, ci sarà tempo di stringere amicizie, fare esperienze, divertirsi e soprattutto crescere.

Il punto di forza della serie sono i personaggi, tutti caratterizzati in modo unico e soprattutto attingendo a una vasta gamma di modelli. C’è Toph, una bambina cieca, che grazie al suo dominio della Terra riesce a vivere in armonia con l’ambiente esterno. C’è Suki, una guerriera Kyoshi che combatte per la resistenza; Iroh, lo zio di Zuko, un anziano saggio e fissato con il the, che saprà darvi i migliori consigli di vita, e molti altri ancora. Il character developement che ognuno di questi personaggi affronterà nel corso delle tre stagioni è davvero meraviglioso. Di solito è difficile essere contenti della conclusione dei singoli personaggi, ma con Avatar posso ritenermi soddisfatta: ogni personaggio ha avuto ciò che meritava (soprattutto Zuko).

Un grande apprezzamento va anche al world building, ovvero tutto ciò che riguarda l’ambientazione e la lore, per il quale i creatori hanno fatto accurate ricerche, ripagate dall’apprezzamento dei fan. Il mondo di Avatar si ispira all’arte e alla mitologia asiatica, combinando influenze cinesi, coreane e indiane, il tutto in modo rispettoso e anche divulgativo. Dal punto di vista visivo, queste influenze si notano negli abiti e nello stile di combattimento di ogni nazione: l’aspetto di Aang ricorda quello di un monaco buddhista, i dominatori dell’Acqua vestono con parka Inuit e combattono in stile Tai Chi. Nel regno della Terra ci sono influenze coreane; infine, gli abiti dei dominatori del Fuoco sono ispirati al sud-est asiatico e combattono in stile Shaolin.

La pergamena del dominio dell’Acqua, da cui Katara impara nuove combinazioni di movimenti

Ogni nazione, quindi, ha una propria identità e alla fine vi sentirete di aver compiuto un vero viaggio in queste culture e di conoscerne meglio i principi, soprattutto spirituali. L’aspetto “morale”, infatti, non è da sottovalutare: personaggi come Aang, Iroh e gli altri guru che il gruppo incontrerà nel corso della storia, sapranno toccarvi davvero il cuore con le loro parole e farvi scendere quel tipo di lacrime che ti fanno sentire bene quando le versi. Alla fine, la morale è questa: guarda dentro te stesso e non aver paura di scoprire la verità, anche se non è la verità che ti aspetti. Penso che guardare Avatar sia un buon modo per comprendere meglio la stratificazione delle nostre emozioni.

Adesso, so cosa starete pensando: va bene, è una serie culturalmente interessante, introspettiva, ben scritta, ma… io vorrei guardare qualcosa per divertirmi! Ancora una volta, Avatar fa al caso vostro! Prima di tutto è una serie che diverte: vi ritroverete a ridere alle battute stupide di Sokka, ai commenti sarcastici di Toph e alle disavventure del venditore di cavoli. Tutti gli aspetti più “seri” sono immersi in questo piacevole substrato: questa serie è precious e wholesome.

Fidatevi di me e guardate questa serie (disponibile su Netflix): lasciatevi stupire nello stesso modo in cui io, una 24enne, mi sono commossa davanti a una serie per ragazzini. Esistono pochi prodotti mediatici che, seppur scritti per un certo target, riescono a comunicare il loro messaggio a tutti, e Avatar è tra questi.

Alessia

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She took the midnight train going… to Europe

Oggi desidero tornare alle mie origini: nel lontano 2017, agli inizio del blog, avevo scritto la recensione per un film di Bollywood, Ram-Leela, un retelling di Romeo e Giulietta. Era il mio primo film bollywoodiano, ed è risaputo che la prima volta non si scorda mai. Se non avete mai visto un film di Bollywood, forse non ne conosce la caratteristica più iconica… e no, non parlo delle musiche e dei balli, ma della lunghezza di queste pellicole: dalla due ore in su. Ma non spaventatevi, perché con il film giusto quelle due ore passano che è un piacere! Il film Queen mi ha prima di tutto sorpresa: lo sviluppo della trama, i legami tra i personaggiE’ difficile che un film mi sorprenda tanto da spingermi a parlarne, ma questo è il caso di Queen.

Protagonista del film è Rani (il suo nome significa “regina”, come il titolo del film). Rani è una ragazza di Delhi cresciuta in una amorevole famiglia, legata sì alle tradizioni, ma allo stesso tempo comprensiva. Manca pochissimo al matrimonio tra Rani e Vijay, e attraverso una serie di flashback sono raccontati i momenti più salienti della loro conoscenza, agevolata anche dalla conoscenza tra le due famiglie. Insomma, tutto sembra andare per il verso giusto… ma il giorno prima del matrimonio (e immaginiamo quanto i matrimoni indiani siano elaborati) Vijay decide di lasciare Rani con una serie di scuse: lui vuole viaggiare, andare all’estero, mentre lei è troppo tradizionale.

Distrutta dalla notizia e imbarazzata di fronte a tutti i suoi parenti, Rani si barrica in camera, circondata dagli ormai inutili regali di nozze e dal pensiero dei suoi progetti futuri… E’ forse un lampo di lucidità, quello che attraversa la mente di Rani, o forse un sano egoismo: ciò che attendeva più di tutto era andare in viaggio di nozze e adesso… non solo non si sposa, ma dovrebbe perdere anche questa possibilità? No, pensa Rani, quello era il mio sogno, e me lo riprendo! E in fondo, è stato già tutto pagato, perché non farlo? Io non la biasimerei di certo!

Dunque, Rani parte, tra la preoccupazione dei genitori, ma anche il loro sostegno. Le sue destinazioni sono due splendide città europee, Parigi e Amsterdam, un viaggio che Rani inizierà in solitaria, spaventata sia per non essere mai stata prima all’estero, sia per la barriera linguistica, ma che concluderà portandosi nel cuore quattro nuovi amici di diversa nazionalità e nuove consapevolezze.

L’aspetto più bello del film sono proprio i legami che Rani stringe con i suoi temporanei compagni di viaggio. La sua prima conoscenza nella sconosciuta Parigi sarà una ragazza disinvolta di nome Vijayalakshmi (che, per sfortuna di Rani, si fa chiamare con il diminutivo Vijay, che le ricorderà proprio il suo ex fidanzato), che lavora come cameriera nel suo albergo. Nella seconda tappa, invece, ad Amsterdam, per una serie di vicissitudini Rani sarà costretta ad alloggiare in un tipico youth hostel e a condividere la camera con tre ragazzi internazionali: Taka dal Giappone, Tim dalla Francia e Oleksander dalla Russia. Titubante e diffidente all’inizio, pian piano Rani si apre a queste persone, condividendo parte dei rispettivi viaggi e vite.

Seguire Rani nel suo viaggio mi ha fatto venire una voglia matta di andare in Interrail, non solo per visitare le città e le sue bellezze, ma anche per incontrare persone di altre nazionalità unite dalle stesse circostanze del viaggio: sconosciuti che si incontrano solo per un breve momento e solo per caso, lasciando però un segno importante. Molto poetico, forse utopico, ma è ciò che questo film mi ha trasmesso.

Un aspetto interessante del film è che Rani conosce poche parole in inglese, e per questo motivo fatica a comunicare. Questo sarebbe potuto risultare in un film lento ed estenuante per lo spettatore, di fronte a una protagonista che non riesce a parlare con gli altri personaggi. Invece no: il film esprime questa barriera linguistica, ma senza renderla una barriera alla visione del film in sé. Questo è particolarmente interessante per le scene di Amsterdam, dove Rani si trova “linguisticamente” sola per la prima volta, quando invece a Parigi aveva avuto sempre la compagnia della connazionale Vijayalakshmi, e inoltre i tre ragazzi con cui fa amicizia sono di nazionalità tutte diverse.

La parte ambientata ad Amsterdam è proprio la mia preferita: Rani e i suoi amici parlano un inglese maccheronico, parlano a gesti e per immagini, eppure riescono a capirsi e a organizzarsi per fare tante cose insieme: andare a un concerto, partecipare a una gara di cucina… Quello che ne emerge è una amicizia sicuramente temporanea, legata al tempo limitato che possono condividere, ma in cui ognuno mostra le parti più importanti di sé, che risultano anche essere elementi in comune: la mancanza dei genitori lontani, il sostegno durante i momenti di difficoltà e il superamento di alcune ferite.

Un’ultima cosa che vorrei segnalare, infine, è la rappresentazione dell’italianità. Infatti, Rani incontrerà il proprietario di un ristorante italiano ad Amsterdam. I due si incontrano in una circostanza conflittuale: dopo aver ordinato un piatto italiano, Rani afferma di trovarlo poco saporito e vorrebbe aggiungerci più spezie, scatenando ovviamente lo sdegno del cuoco italiano. Nonostante questo personaggio sia secondario, ho davvero apprezzato la sua rappresentazione. Certo, è uno stereotipo, ma secondo me si tratta di uno stereotipo a cui siamo quasi affezionati: l’italiano fermamente convinto che la sua sia la cucina migliore del mondo. A questo si aggiunge anche il fatto che l’attore che lo interpreta è un vero italiano (cosa non scontata): parla inglese con un accento molto credibile e gesticola proprio come un italiano! Insomma, non mi aspettavo proprio questo personaggio, ma sono rimasta davvero sorpresa!

Bruschetta mista, prosciutto e melone, zucchina ripiena. La lavagna con il menù mi ha fatto volare 🤌🤌

Il viaggio di Rani si conclude con una maggiore consapevolezza di ciò che c’è lì fuori, ma anche di cosa si dimostra essere importante per lei, alla fine di tutto. Queen mi ha commosso, divertito, ispirato. Vi consiglio vivamente questo film e fatemi sapere la vostra!

Alessia

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Hogwarts a Lecce: guida alle biblioteche (parte 2)

Il filo magico che unisce Hogwarts a Lecce continua a dipanarsi. Per leggere la prima parte di questa serie, clicca qui. In questo articolo vi presenterò due splendide biblioteche a Lecce, da visitare prima di tutto da un punto di vista estetico e architettonico.

  • Ex monastero degli Olivetani

Questa biblioteca si trova in un posto inusuale: all’interno di un ex monastero, vicino al cimitero monumentale di Lecce. Inoltre, i chiostri del monastero-biblioteca sono collegati alla adiacente chiesa dei SS Nicolò e Cataldo. Tuttavia, non c’è nulla di tenebroso nella sua atmosfera! Anzi, direi che l’edificio emana un’atmosfera da college inglese che a mio parere concilia lo studio e gli dona una certa estetica. L’ex monastero, un tempo sede dei monaci Olivetani, oggi appartiene all’Università del Salento ed è attualmente sede del dipartimento di storia, con aule ed uffici dei professori.

Appena entrata nel monastero, sono rimasta affascinata dall’architettura, che mi ha subito ricordato gli interni di Hogwarts e le università di Oxford e Cambridge, dove sono girate alcune scene dei film. Chi, tra i fan di Harry Potter, non ha fantasticato almeno una volta di poter frequentare Hogwarts, pensando che lì forse studiare sarebbe stato più piacevole, così immersi in quell’atmosfera di antica sapienza? Io sono sono tra quelle persone. Insomma, vi lascio qualche foto, così potete giudicarne la somiglianza, almeno per quanto riguarda le vibes.

L’ex-monastero degli Olivetani vale la pena di essere visitato prima di tutti come turisti, e poi come studenti. La sala lettura si trova al primo piano: è un lungo corridoio dall’arredamento male assortito: divanetti e poltroncine, scrivanie e tavolini rotondi… Una volta lessi (fonte attendibile: catalogo Ikea) che quando la tavola è circondata da sedie di colori e tipologia diversa, il senso di convivialità aumenta, e mi trovo molto d’accordo: il poter scegliere la propria postazione di studio in base a come si preferisce in quel momento (più serio o più spaparanzato) aumenta la voglia di fare. Inoltre, dalla sala lettura si può accedere alla terrazza del monastero, dove godersi una meritata pausa sullo sfondo e del cimitero vicini. Ripeto: nient’affatto macrabro. Direi più… catartico!

Terrazza. Sullo sfondo, campanile e cupola della chiesa dei SS Nicolò e Cataldo
  • Biblioteca Bernardini (all’interno dell’ex Convitto Palmieri)

Questa biblioteca è la chiudifila, ma soltanto perché l’ho scoperta troppo tardi, purtroppo! L’ex Convitto Palmieri è un edificio storico con un grande cortile antistante, fiancheggiato su tre lati da un colonnato che ne da un magnifico aspetto classicheggiante. All’interno si trovano una serie di spazi sia a cielo aperto (per riposarsi seduti a dei colorati tavolini), sia al chiuso, che ospitano delle mostre, come quella dedicata all’evoluzione della stampa in cui poter ammirare vecchie presse e i primi Macintosh.

Il cortile esterno

Ricordo in modo vivido il momento in cui ho scoperto la biblioteca Bernardini. Il Convitto ospita regolarmente festival e manifestazioni, e con un’amica quel giorno ero andata a vedere il festival del fumetto. Non essendoci mai stata, la mia amica mi ha guidato per un breve tour, dicendomi che, se avevo adorato la biblioteca degli Olivetani, allora questa mi sarebbe piaciuta ancora di più. Quindi, hype alle stelle… e le mie aspettative non sono state deluse, anzi direi ampiamente superate!

Biblioteca Bernardini

Mi pareva di essere entrata nella biblioteca di Hogwarts che tante volte avevo visto sullo schermo, con gli scaffali dall’aspetto antico colmi di libri e busti di personaggi importanti che osservavano gli studenti intendi a studiare. Entrando in questa biblioteca ci si sente in soggezione, perché si percepisce più che in qualsiasi altro luogo la necessità di fare assoluto silenzio. Forse non è la biblioteca più adatta per studiare regolarmente, ma se si cerca una particolare concentrazione, e se volete immergevi in atmosfera hogwartsiana, dovete assolutamente farci un salto.

Qui si conclude il nostro magico viaggio! Adesso tocca a voi: durante il prossimo viaggio in Puglia, dedicate una sosta in queste due splendide biblioteche e raccontatemi le vostre impressioni!

Alessia

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Hogwarts a Lecce: guida alle biblioteche (parte 1)

L’ultimo anno di magistrale l’ho vissuto a Lecce (Puglia, per chi non lo sapesse) frequentando l’Università del Salento e vivendo la mia prima esperienza da fuorisede. Un netto cambiamento, se penso che, invece, il primo anno della magistrale l’avevo vissuto in camera mia, causa Covid. Non ero mai stata a Lecce prima di allora, e mi ha letteralmente ammaliato. Sin dai primi giorni ho preso l’abitudine di passeggiare senza meta per la città, confondendomi tra i turisti, sedendomi al bar in solitaria a leggere e scoprendo ogni angolo, rigorosamente a piedi. Di solito, non esco senza una meta (perché non saprei dove andarmene) e difatti ogni volta che tornavo a casa mia rimpiangevo quel senso di “libertà” che vivevo a Lecce: nel mio paese non riuscivo a lasciarmi andare a questa spontaneità – non so se a qualcun altro è capitata la stessa sensazione. A Lecce c’era semplicemente un’atmosfera diversa.

E così, mossa anche dalla ricerca di luoghi dove poter studiare e sfuggire alla mia camera doppia in studentato, ho scoperto il fantastico mondo delle biblioteche di Lecce, di cui mi sono innamorata. Ecco le biblioteche che mi hanno accolto durante le sessioni, nei momenti di solitudine e di compagnia: un tassello importante della mia esperienza da fuorisede. (Non scriverò gli indirizzi, perché siamo nel 21esimo secolo e tutti usano Google Maps).

  • Studium 2000

Soltanto a sentirne il nome, non vi ispira? E’ stata la mia prima biblioteca, la più vicina al mio studentato. Vista dall’esterno, ammetto che l’aspetto non è dei migliori: quel grigio cementizio, un po’ scrostato… sembra una fabbrica abbandonata. Ma il proverbio dice: mai giudicare un libro dalla copertina, e forse tutti gli sforzi estetici che non hanno fatto per i rivestimenti, li hanno invece dedicati agli interni. Il nome Studium 2000 sembra un mix di antichità e futurismo, e appena superato l’ingresso la struttura sembra un po’ più carina
Studium 2000 è un grande complesso che ospita aule, sale conferenze e uffici dei professori. Il cortile principale è fiancheggiato da due porticati: sotto il porticato di destra ci sono dei tavoli per studiare all’aperto quando è bel tempo (ma nessuna presa elettrica).

L’edificio dall’aspetto neoclassico, visibile in foto sulla destra con tanto di colonne e timpano, è un’aula studio al piano terra con una 20ina di postazioni. Intorno a quest’aula bazzica spesso una bella gatta calico (da me soprannominata Pittula il primo giorno che la vidi) e la sua passione è quella di sdraiarsi sui davanzali delle finestre di quest’aula: così, se studierete qui, spesso la vedrete in controluce, come un Patronus a proteggere il vostro studio. In realtà, la caratteristica di Studium 2000 è proprio la presenza di gatti che sonnecchiano nel cortile e cercano carezze dagli studenti in sessione, poiché questa biblioteca è adiacente al parco Belloluogo. Quindi, bonus per i gatti!

L’edificio dall’aspetto più moderno sulla sinistra, invece, è la Biblioteca Interfacoltà, chiamata più semplicemente “Studium”: la biblioteca si trova al primo piano, mentre il piano terra ospita la portineria e un museo. Finalmente, dunque, potrò chiarire il significato del titolo di questo articolo: Tenete d’occhio le scale, a loro piace cambiare

Questa è stata la prima cosa che ho pensato quando sono entrata a Studium: sembrava proprio quella scena della Pietra Filosofale! Una biblioteca di tre piani, con grandi scale a vista, scaffali zeppi di libri, e tra uno scaffale e l’altro i tavoli per studiare. Consiglio: il piano terra è il più silenzioso e ci si sente un po’ “esposti”, mentre ai piani superiori i tavoli sono disposti al riparo tra le librerie, quindi i rumori sono attutiti (c’è un più privacy e si può chiacchierare senza occhiatacce). Ogni tavolo ha a disposizione le prese. In generale, è una biblioteca molto silenziosa e quando ne uscirete, vi sentirete come se usciste da una bolla ovattata per tornare a sentire tutti i rumori del mondo esterno.

PS. Questa è una biblioteca dell’Università del Salento. Al momento non è necessaria la prenotazione, perché i posti sono sempre sufficienti, tuttavia all’ingresso si firma un registro con nome e matricola (momento “giuro solennemente di non avere buone intenzioni”: in generale penso che nessuno vi impedirà l’accesso, quindi andate a studiare lì se ne avete voglia!)

Dato che per questa biblioteca mi sono dilungata molto, penso che dividerò questa tematica in almeno due articoli. Le prossime biblioteche di cui vi parlerò sono due chicche, da visitare non solo per studiare, ma soprattutto per ammirarle!
Alla prossima puntata,

Alessia

Per la seconda parte di questo tour, clicca qui.

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Lavoro e performance

Mi ritrovo a fissare lo schermo bianco e il cursore che pulsa, alla ricerca delle parole giuste per descrivermi. Devo fare una buona impressione se voglio che mi notino, soprattutto dal momento che non ho molta esperienza lavorativa. Allora devo spingere al massimo le mie doti retoriche, esaltare le mie capacità di enterpreneurship, la mia attitudine verso il team work.

Questo è quello che viene spesso ridicolizzato come “gergo di Linkedin”, dove il lavoro di cameriere è probabilmente descritto come “responsabile della food security and safety in un family business“. (Rispetto per i camerieri, il punto di questo articolo è chiaramente un altro). E non fraintendetemi, sarebbe più o meno tutto vero e ci si potrebbe anche immedesimare, se solo la cosa non fosse raccontata in modo tanto pretenzioso. Ma il nocciolo è questa necessità di trasformare qualsiasi cosa in un atto performativo e faccio riferimento soprattutto a Linkedin. La colpa, ovviamente, non è di chi scrive in questo modo, perché è ormai un circolo vizioso: tutto deve apparire professionale e professionalizzante, e se non partecipi al gioco – perché è essenzialmente un gioco di retorica – sei un po’ un reietto: l’animatore del camposcuola tra i team-building manager – e così via, potremmo fare un gioco a trovare sinonimi trendy per tutti i lavori.

Ora, qualcuno potrebbe giustamente dire: se non ti piacciono, non leggere quei post. Al che risponderei: purtroppo nel mondo di Linkedin, e nel più generale mercato del lavoro, sono costretta a navigarci e la realtà è che – facendo riferimento al mio settore, ovvero la traduzione – dire “ho accompagnato gli zii dell’America a vedere le chiesette del mio paese” è ben diverso dal dire “organizzo tour in lingua inglese per appassionati di arte romanica pugliese“. Per non rischiare di essere esclusa dalla corsa al lavoro, anche io devo abbellire il mio CV, le mie esperienze, e la cosa peggiore è quando non hai ancora esperienze, perché devi abbellire anche quel vuoto.

Così, manca poco alla laurea magistrale e mi trovo in questa finestra temporale in cui il pensiero di non avere un lavoro – qualsiasi lavoro – viene alleviato solo in parte dalla giustificazione del “per ora sto pensando alla laurea”.

Dunque, nell’attesa di trovare proposte interessanti, o che qualcuno risponda alle mie candidature, ho iniziato a sistemare profilo Linkedin e CV, che comunque serve sempre. (Sto usando Canva, per chi fosse interessato, ed è magnifico se vi piace allineare tutto con grande soddisfazione). Modifico il CV, impagino in modo aesthetically pleasing e onestamente sono molto soddisfatta: a giudicare dalle mie doti grafiche, mi assumerei. Poi passo al profilo Linkedin, che ammetto di non curare molto, per i motivi di cui sopra: post pretenziosi e un leggero senso di depressione quando vedo che tutti trovano lavoro tranne me. (Sono autorizzata a una punta di autocommiserazione se vi ricordo che ho 23 anni e sono autoironica?). Ma comunque ha anche i suoi pregi.

Sistemata la mia “vetrina”, resta ancora un problema: io su Linkedin di post non ne scrivo e non ne commento. Come diremmo noi giovani “non ho sbatti”: vorrei trovare lavoro, e non scrivere di voler trovare lavoro, se ha senso il ragionamento. Invece, sembra che sia assolutamente necessario farlo, far sentire la propria voce, come se tutti dovessero avere un blog per dire cose intelligenti. Personalmente, la trovo una cosa estenuante: è diventato un social network, nel senso negativo del termine, al livello di Facebook e Instagram, ma per workaholics. Tuttavia, quando questa mania di abbellimento tocca ambiti più seri come il lavoro, non mi piace più così tanto. Suppongo che, se si chiama “mercato del lavoro”, un motivo ci sarà: ci mettiamo tutti in vendita e alla fine diventa un po’ una fiera, a chi strilla più forte, a chi ha il baracchino più colorato. Non tutti sanno fare i venditori in fiera, però, non tutti vogliono farlo, eppure dobbiamo, altrimenti saremo fuori dalla festa.

Non voglio fare della mia ricerca di lavoro-assunzione-promozione-licenziamento una performance. Non voglio dover curare nei minimi dettagli la grafica del mio CV e abbellirlo con iperboli per avere più probabilità di essere scelta. Non voglio mostrare la mia “mercanzia”. Vorrei poter dire: ecco quello che so fare, ecco quello che vorrei fare, spero mi considererete. Certo, il modo in cui si dicono le cose è importante, non stiamo mica parlando di essere sbrigativi o sciatti, bensì di non dover essere necessariamente performativi – così come ci si presenta ad un colloquio di lavoro vestiti in maniera adeguata per l’occasione, senza essere giudicati più o meno meritevoli per il suddetto abito.

La conclusione è che… non posso farci nulla, devo usare le mie doti retoriche anche se non è nelle mie corde e chissà, posterò la foto della mia laurea ringraziando l’università con parole commosse come fanno in molti. Però dentro di me, al momento, penso: vorrei che siano i miei diplomi a farmi trovare lavoro, le competenze che ho e quelle che cerco di colmare con il desiderio di imparare. Trovare lavoro non dovrebbe essere determinato dalla bellezza di un CV o di un profilo Linkedin.

Alessia

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Journal entry #4

Adesso che sono all’università, un po’ rimpiango le ore di filosofia del liceo, che mi facevano venire in mente idee strampalate. Ammetto che una delle mie prime “preoccupazioni” quando ho lasciato la scuola superiore (ormai due anni fa, time flies) è stata proprio: adesso chi punzecchierà il mio cervello con strane domande? Chi mi farà riflettere su cose fuori dall’ordinario?

Invece la fortuna (o sfortuna) è arrivata dopo non troppo tempo, quando ho iniziato a seguire il corso di linguistica generale. Lezioni più confusionarie che mai, ma la cosa che conta è stata la prima lezione, in cui il prof ha citato un famoso linguista, Roland Barthes:

 On échoue toujours à parler de ce qu’on aime.

La storia dietro la traduzione di questa frase mi ha molto affascinato e da lì è scaturita un’idea da aggiungere al mio journal.

È ufficialmente tradotta come “si fallisce sempre quando si parla di qualcosa che si ama”. Il verbo échouer è stato tradotto come fallire e in generale la traduzione sembra voler comunicare che non saremo mai in grado di esprimere attraverso le parole ciò che amiamo. (Piuttosto triste, lo so)

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Tuttavia échouer nell’originale francese ha diversi significati, tra cui quello di “arenarsi, incagliarsi”. Quest’altro significato apre la strada verso una traduzione completamente diversa: quando parliamo di qualcosa che amiamo, rimaniamo bloccati, proprio come una nave incastrata tra gli scogli. E per quale motivo una nave potrebbe arenarsi? A causa delle sirene. Tutte le cose che amiamo – e di cui amiamo parlare – sono le nostre sirene. Non possiamo fare a meno di scrutare l’orizzonte alla loro ricerca, e anche quando non le stiamo cercando, quelle sirene ci chiamano e ci attirano, che lo vogliamo o meno. E noi lo vogliamo

Questa è tutto: quando parliamo di qualcosa che amiamo, ci incastriamo nelle nostre stesse emozioni e proprio non riusciamo a cambiare soggetto. E quando, invece, stiamo parlando di altro… finiamo sempre con il parlare di ciò che amiamo. Un cerchio senza fine.

Alessia

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Consuetudini e gabbie mentali

Una settimana fa ho iniziato l’università e ho deciso di seguire le lezioni di diritto internazionale. Una delle prime nozioni che abbiamo appreso è che la prima fonte di norme è la consuetudine. Cos’è la consuetudine? È un comportamento che si ripete reiteratamente nel tempo, ritenendo che sia giusto e necessario.

È consuetudinaria anche la nostra vita: ci creiamo delle abitudini e dei modi di fare che permettono di distinguere tra situazioni che sono “da noi” e altre che non lo sono.

Le consuetudini non sono negative di per sè. Ci aiutano a orientarci nell’infinita possibilità di scelta (come ci insegna il vecchio Kierkegaard), ci aiutano a tracciare una linea di condotta. Di fronte a una situazione potremmo potenzialmente reagire in qualunque modo: decidiamo quindi di farlo nella maniera che ci fa sentire più a nostro agio, che diventa il nostro modo di essere.

Agli occhi degli altri, e soprattutto agli occhi di noi stessi, è così che nascono le etichette. Mi sono sentito sopraffatto da quella festa chiassosa? Devo essere un introverso. O invece mi sono sentito pieno di energie in mezzo a tutta quella gente? Allora sono un estroverso. Il problema delle etichette è che sono armi a doppio taglio: ovviamente ne abbiamo bisogno perchè altrimenti non avremmo una vaga idea di chi siamo, ma non dobbiamo farci ingabbiare. Nel 2018 è bell’è superata la dicotomia introversione/estroversione e sappiamo che è uno spettro fatto di eccezioni.

Sì, perché se da un lato è vero che noi umani abbiamo delle abitudini, dall’altro abbiamo anche il concetto dell’ “eccezione che conferma la regola”. Quindi, l’introverso di turno  avrà un momento di estrema estroversione quando scoprirà che il suo artista preferito farà tappa in Italia. E potete giurarci che non avrà più alcun timore a parlare con gli estranei pur di raggiungere il suo obiettivo. Non sarà un comportamento “da lui/lei”, ma a quanto pare è proprio l’eccezione che conferma la regola.

Le consuetudini però possono diventare obsolete, e noi dobbiamo fare qualcosa per accorgercene, altrimenti rischiamo di perdere tempo con cose che non ci interessano più. Oppure di scartare cose interessanti solo perché diamo per scontato che, non essendoci piaciute in passato, non possono piacerci adesso.tumblr_okt76thqgQ1vkadpmo1_500Alcune consuetudini sono più facili da infrangere. Altre, quelle che soprattutto hanno a che fare con i legami personali (e l’orgoglio) un po’ meno. Bisogna pensare alle abitudini come a delle gabbie: di alcune abbiamo lasciato la porta aperta e possiamo uscire dalla confort zone quando vogliamo. Di altre possediamo la chiave e se volessimo, potremmo cambiare abitudine (certo che ho della frutta in frigo, è che scelgo di non mangiare più sano).

Altre gabbie/abitudini, invece… Beh, funzionano come dice il nome stesso. Queste sono le vere stronze, le cattive abitudini in cui ci crogioliamo. Ma non è colpa nostra se lo facciamo: abbiamo le nostre ragioni, o le avevamo, in passato. Il problema è che ci siamo aggrappati ad esse, elevandole a nostro stendardo. Trasformandole in pilastri su cui costruiamo alcuni aspetti della nostra vita.

Un esempio di una gabbia/abitudine del genere è il rancore che possiamo serbare per anni. Quell’amico che non ci ha mai chiesto per primo di uscire (e quindi neanche io glielo chiederò più. Ci sto male, ma… non posso essere sempre io la scema, no?). Il genitore che non si è interessato di noi (e no, non mi importa che io non ho abbia chiesto della sua giornata. Il punto è che lui/lei non ha mai chiesto della mia).

È tutto molto illogico, visto dall’esterno, ma è umano. Se siamo arrabbiati, non possiamo controllarci, né essere giusti nei confronti degli altri. Altrimenti non saremmo arrabbiati.hhhCosì il rancore, l’ingiustizia, l’insoddisfazione che abbiamo provato una volta si trasformano in abitudini. E la verità è che siamo noi stessi a volerlo, più o meno consapevolmente. Speriamo che quell’amico declini il nostro invito a uscire solo perché così possiamo provare a noi stessi che “ecco, è lui l ingrato, io sto facendo la mia parte”. E per quanto vorremmo che il nostro genitore ci chieda di noi, rigettiamo l’idea di aprirci a loro perché “non funziona così tra noi”.

Questo tipo di gabbie, non possiamo aprirle da soli: abbiamo bisogno di un occhio esterno per distanziarci dalle abitudini che ci impediscono di fare, dire, reagire come ci pare adesso, e non in virtù del passato. (Al momento mi sento profonda attaccata da tutto ciò che io stessa sto scrivendo lol)

Dobbiamo resettare. Orribile, vero? Cambiare direzione per capire da dove soffia il vento. Per tutto questo tempo abbiamo creduto di sentire il vento in faccia, quando invece aveva cambiato direzione.

Non è una bella sensazione, cambiare la direzione che abbiamo seguito per tutto questo tempo. Anche quella è una comfort zone, per quando ci provochi sconforto per tutti i sentimenti negativi a cui si ispira.

Abbiamo bisogno che altri ci pongano le giuste domande, e quelle sfortunate persone saranno oggetto della nostra seccatura (ehi, ho detto che volevo un consiglio, ma era implicito il fatto che fossi d’accordo con me!).

 

Una volta in cui mi stavo lamentando di quanto mia madre fosse irragionevole nel continuare ad arrabbiarsi per mie mancanze del passato, un mio amico mi ha detto “ma… tu ti stai comportando allo stesso modo, non credi?”. E io sono rimasta lì, sentendomi un pochino tradita da quelle parole, perché non mi era stata data ragione. E come in un moment of consciousness ho pensato “o mio dio, è vero”. Dal mio amico volevo una risposta che fomentasse il mio rancore e che lo giustificasse come lo giustificavo io… invece ho trovato un grande segnale di alt.

Questo non significa che dal giorno successivo ho trovato una soluzione ai conflitti famigliari o che metterò una pietra sopra su tutto il passato. Ma quando il conflitto accade… si, va bene, magari ci ricasco. Devo ancora imparare. Ma la vedo. Adesso vedo quella stronza di abitudine, lì, piccolina nel suo angolino di cervello. È già un passo.

Breccia è stata fatta. La gabbia/abitudine è stata aperta, ma solo chi c’è dentro può decidere di uscire. Creeremo una nuova consuetudine con più eccezioni e più libertà, magari con l’orgoglio un po’ ferito.tumblr_ofrtic8GV81tsd4fto1_500

Cresciamo affettuosamente legati alle nostre abitudini, al punto da considerare quelle abitudini non-così-buone come giuste e familiari, trasformandole in pilastri per la nostra vita. Bene, adesso mettete alla prova a vostra casa, permettete  di indicarne le crepe (con rispetto, eh). La soluzione sarà lunga da trovare, ma per adesso non riuscirete a non-vedere le crepe e a non-considerare l’illogicità di alcuni modi di fare.

 

Alessia