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Permanenza dell’affetto

A mio parere i bambini sono dei soggetti di studio interessantissimi, nel senso scientifico e comportamentale. Potrei passare ore a guardare su YouTube video di bambini sottoposti a vari “esperimenti” comportamentali e osservare come una differenza di età di pochi mesi possa avere così tante ripercussioni. Mi stupisce vedere come effettivamente i bambini sotto una certa età non siano in grado di concepire i concetti di spazio e tempo come noi adulti. Il concetto del sé.

Mi ritrovo a guardare questi video e a pensare “se solo sollevassi il tuo stesso piedino, riusciresti a spingere il carrellino, forza, ce la puoi fare”. Eppure, un bambino sotto i 18 mesi non può farcela, non è colpa sua: non ha ancora sviluppato consapevolezza del suo stesso corpo.

Un’altra importante abilità di vita quotidiana che i bambini acquisiscono gradualmente a partire dai sette mesi è il concetto della permanenza dell’oggetto. Prima dei sette mesi, il bambino considera esistente ed ottenibile solo ciò che vede: se un oggetto non è più nella sua visuale, esso cessa di esistere. Così, allo stesso modo, se un genitore esce dalla visuale del bambino, anch’egli cesserà di esistere. Comprendendo questo punto di vista, inizia ad essere quasi più comprensibile o razionalizzabile il timore della separazione nel bambino.

Dopo i sette mesi, tuttavia, qualcosa cambia: il bambino inizia a concepire l’idea che un oggetto continui ad esistere anche quando non è più nel suo campo visivo, che quell’oggetto, riposto in un determinato luogo, è molto probabile che rimarrà in quel luogo e potrà essere cercato e ri-ottenuto.

Se la permanenza dell’oggetto è, di norma, una capacità che tutti acquisiscono naturalmente, forse c’è un’altra accezione di permanenza che potrebbe venire a mancare e che dovrebbe essere allenata anche negli adulti. L’idea di permanenza dell’affetto è un concetto che, detto in parole povere, non penso sia stato teorizzato da nessuno, se non da me dopo aver speso troppo tempo nella mia testa, ma ci tenevo a sviluppare questo concetto. (E se davvero esiste qualche teoria simile, sarei molto interessata a leggerla!)

Premettendo che non ho una relazione a distanza, ecco un esempio di vita vera (la mia).

Dopo aver passato il fine settimana con il mio ragazzo, al momento di salutarsi spesso vengo colta da un timore da separazione, una sensazione minima, eppure fastidiosa, poiché va a turbare la quiete delle ore precedenti. Se mentre sono insieme a lui nella stessa casa sono tranquilla anche quando siamo in stanze diverse a fare cose diverse, nel momento in cui vado via è come se una parte di me temesse che l’allontanamento possa provocare un’interruzione dell’affetto che c’è tra noi. E così, metto in atto un comportamento rafforzativo, concentrato negli ultimi minuti prima di andare via, in cui esterno ancora di più il mio affetto e ripeto mille volte di aver passato una bella giornata.

Poi vado via, a metà tra tranquillità e ansietta. So che lui si è divertito con me, me l’ha detto esplicitamente, me lo dice sempre… ma ora che sono andata via, continuerà a pensare che si è divertito veramente? Ora che non sono più presente e lui tornerà al suo hobby, continuerà a pensare che è felice con me?

(Forse un articolo sul blog non è il luogo più adatto a sviscerare queste domande, meglio una seduta dallo psicologo e, credetemi, ci sto lavorando :P)

Una delle ultime volte in cui mi sono capitati questi pensieri, dunque, è nato questo collegamento: così come un bambino non riesce ragionevolmente a concepire che un oggetto possa continuare ad esistere anche quando è fuori portata, mi è parso quasi che dovessi convincere con le buone il mio cervello a capire che l’affetto tra due persone può continuare ad esserci anche quando non sono nello stesso raggio.

Sicuramente le motivazioni alla base delle due “impermanenze” sono diverse: quella d’affetto potrebbe essere legata alla fiducia che riponiamo nel partner, o che abbiamo (mal)riposto in partner precedenti e che adesso si ripercuote in paure e aspettative. Per quanto mi riguarda, questo dubbio dell’impermanenza non riguarda solo l’affetto che gli altri provano nei miei confronti, ma anche l’impermanenza dell’affetto che provo io nei confronti degli altri, e non raramente mi sono seriamente domandata: se adesso improvvisamente mi ritrovassi da sola, se non vedessi più le persone che sono abituata a vedere, ne sentirei la mancanza?

Una volta fuori dal campo visivo inizio a mettere in discussione la veridicità e la reale esistenza di affetto. (Im)permanenza dell’affetto. E non è molto piacevole coesistere con queste domande e questo timore. Questo doversi quasi accertare di avere un cuore che batte e che prova sentimenti, o doversi accertare – o meglio, dover fare del proprio meglio per fidarsi del fatto – che le persone che ci vogliono bene credono davvero al fatto che ci vogliano bene.

Ovviamente, la parte più razionale del mio cervello sa qual è la risposta a queste domande. , l’affetto continua anche quando esistono tutte quelle distanze fisiologiche di una normale vita quotidiana. No, così come sai che un oggetto riposto in un cassetto continuerà a trovarsi in quel cassetto, allo stesso modo l’affetto non cessa di esistere solo perché la persona oggetto di quell’affetto è in un altro compartimento di vita.

La parte razionale del mio cervello lo sa… il problema è la parte non razionale, la parte un po’ alla san Tommaso, che se non vede non crede.

Molto probabilmente è una questione di fiducia, in se stessi e negli altri, e spero vivamente che la fiducia possa essere allenata come una qualsiasi buona abitudine. Nei momenti di insicurezza, tuttavia, cercherò conforto in questa possibile similitudine e mi dirò: PERMANENZA DELL’OGGETTO, ALESSIA, PER-MA-NEN-ZA. E spero che questo punto di vista possa essere utile anche a qualcun’altro tra voi.

Alessia xx

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Still water – an interlude (title redacted: This is the truth/Can the truth change?)

Everyday
I went to the lake
I leaned over its waves
And glimpsed at my own reflection
Trying to figure out who I was
And why I was there


But the water wasn’t still enough:
Sometimes the sky was cloudy
The wind rippled the water
The rain made it unreadable
Leaves and feathers crossed the stream
Yet so impatient was I for a clear vision
That I misunderstood the signs
Like a newbie oracle

I kept making mistakes
I kept grasping at every sign
But one day
I went to the lake
And the weather was kinder
The sun shined through transparent water


I thought I’d see the bottom of the lake
Stones and sand and fish
But
I saw my own reflection
This time for real
No ripples
No dirt
Thought I
‘d look different
But I was not discouraged by that vision


I was
Seeing the truth
I was
Unarmed

Alessia

Other poems:
Part 1
Part 2

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To the boy I’ve loved before (part 1)

To be honest
If I had to choose
I wouldn’t have chosen you
Yes, it’s hard to accept
But it’s the truth

You don’t have
The kind of beauty I looked for
Skin soft and velvety
Cheekbones sharp as knives
Instead
Your cheeks are chubby
And your belly is soft
And I love to rest on it

You don’t like reading
Or writing
And say you can’t draw
While all this
I looked for in my love
But even if you don’t read
And the chances of you
Reading me to sleep are slim
You use your words better than I do

You don’t read
But you listen to a lot of music
And now I understand
That’s kinda of reading too
And now I have a new dream
Of you playing guitar
Making me fall asleep

I haven’t chosen you because we’re similar
We’re not alike
Yet
We like each other
It’s strange, isn’t it?
I’m trying to find an explanation
But I can’t
It almost doesn’t make sense
But here we are
Together
Different
Old dreams have transformed
Into new ones, sewn around you

If I had, I wouldn’t have chosen you
But I didn’t choose
Really, there weren’t others
It was you
Standing where I had to meet you

Alessia

Other poems:
Interlude
Part 2

My comfort poem:

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Stessi occhi, stesso corpo. Diversa percezione.

Ricordo abbastanza chiaramente un momento di quattro o cinque anni fa – ormai crescendo perdo il conto del tempo che passa – un momento, contestualizzato durante un periodo molto ansioso, in cui mi ero guardata alla specchio e non mi ero riconosciuta. Di base già presa da un senso di inadeguatezza e ansia che mi aveva spinto a chiudermi nel bagno di casa di amici, si era aggiunto anche il panico che forse – non lo so – forse stavo avendo un episodio di derealizzazione.

Mi guardavo allo specchio e mi sentivo distante, diversa dal volto che mi guardava di riflesso. Non mi riconoscevo e la persona che vedevo mi sembrava brutta. Penso sia un’esperienza davvero orribile, che ti lascia inerme e nel panico, perché non puoi scappare dal tuo stesso corpo e temi di non poter trovare pace.

Poi, il periodo stressante è finito – per così dire, perché lo stress e le ansie non finiscono mai, al massimo sono assopite fino al prossimo trigger.

Quattro anni più tardi sono sola, e a volte è difficile, quasi doloroso, quando il bisogno di sentirsi amati, accolti, avvolti non è assecondato, poiché manca una persona con cui condividere questi bisogni. E a volte – non sempre, ma a volte – ciò che mi impedisce di prendere decisioni avventate, di gettarmi tra le braccia di un qualcuno qualsiasi solo perché… perché no, oppure di bere un po’ troppo il sabato sera… è guardarmi allo specchio e vedermi bella.

Può sembrare una contraddizione: sentirsi belli non dovrebbe infonderci più autostima e faccia tosta per metterci in gioco e osare un po’? Certo, e non potrei fare la predica a nessuno, anzi a volte si esagera proprio perché ci si sta divertendo, e non c’è niente di male nel divertirsi. Quello che intendo io, invece, è quando si fanno delle cose che sappiamo ci faranno stare male perché sin dal principio siamo mossi da motivi autodistruttivi, o addirittura siamo semplicemente senza motivi.

A volte percepire la propria bellezza può aiutare a scegliere con più cura – a scegliere con mente lucida, piuttosto che con altri metodi di giudizio – perché quello che penso, quando mi guardo allo specchio, e quando il mio umore me lo permette è:

non voglio gettare il mio corpo tra le braccia di una persona qualunque, vorrei che quella persona mi guardi con lo stesso affetto che io provo ora per il mio corpo.

Sentirsi belli non vuol dire essere belli, perché sarebbe sciocco non ammettere che sì, esistono dei canoni di bellezza oggettivi, e io stessa non vi rientro al 100% – nessuno d’altronde. Sentirsi belli è una sensazione che viene da dentro, forse è più collegata al senso di rispetto e stima che si prova verso il proprio corpo: rispetto il mio corpo e non vorrei trattarlo male, rispetto il mio corpo e vorrei che venisse toccato solo da persone che lo tratterebbero con il mio stesso affetto. Perché nei momenti di lucida osservazione, mi piacciono davvero il mio viso, le mie braccia, la mia pancia, anche se non sono perfette. E non è che mi piaccio nonostante la mancanza di qualcosa, mi piaccio perché ho un certo qualcosa. Così come mi piacciono… che so, i tulipani: non nonostante non siano rose, ma proprio perché sono tulipani.

Ora, non so quale sia la morale di tutto questo. Che forse “la bellezza è negli occhi di guarda” e più precisamente nei nostri stessi occhi? Che per compiere scelte giuste bisogna essere in grado di vedere il proprio valore, anche parlando di scelte e di valori puramente fisici e pratici?

Spero che tutti un giorno trovino un modo per apprezzare il proprio corpo e ogni sua proiezione negli specchi e nelle nostre stesse menti.

Alessia

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What’s in my bag: edizione apocalisse

Qualche giorno fa ho finito la serie tv The Last of Us, ispirata al famoso videogioco, e che sta spopolando ovunque, rendendo l’attore Pedro Pascal la crush di qualsiasi essere umano bazzichi l’internet. E come non essere d’accordo…
Tuttavia, oltre ai pregi e difetti della serie, sono molto contenta che TLOU abbia toccato con poche e semplici scene una tematica importante: il ciclo mestruale in situazioni disagianti, quale potrebbe essere un apocalisse “zombie”.

Un recap delle scene in questione – tranquilli, non ci sono spoiler, anche perché ho la memoria di un pesce rosso.
Nell’episodio 3, durante una perlustrazione alla ricerca di armi e cibo, Joel avverte Ellie che la speranza di trovare qualcosa di utile è bassissima. Ellie, però, è testarda: scende in uno scantinato… ed effettivamente non c’è nulla di valore adeguato a sopravvivere agli Infetti. Nulla, fatta eccezione per una scatola di Tampax. Ellie sgrana gli occhi, esulta e se la mette nello zaino. E’ stato in questo momento che ho pensato: ah… beh, ha senso…

Nell’episodio 6, invece, Ellie e Joel ritrovano un po’ di normalità all’interno di una comune. Qui ricevono cibo, un letto in cui riposarsi. Dopo una doccia rigenerante, Ellie trova sul letto un pacchetto: dentro c’è una coppetta mestruale, con tanto di foglietto illustrativo. Ellie è divertita, forse perché non ne ha mai vista una, la telecamera scorre sui disegni che mostrano come piegarla e inserirla.

Sono rimasta piacevolmente colpita da questi pochi minuti di filmato, che però hanno un grande impatto sullo spettatore – e soprattutto sulle spettatrici. In primis, la rarità di vedere rappresentato nei media – film o romanzo che sia – il ciclo mestruale. Rettifico: rappresentato in modo serio, il che non significa necessariamente pesante e didascalico. Infatti, spesso il ciclo viene utilizzato come diversivo: il ciclo o la la PMS portano al malumore, a voglie dei cibi più disparati, attacchi emotivi, figure imbarazzanti in pubblico.
E sì, c’è anche questo, non sono “falsi miti” – anzi io stessa rivendico il mio “inalienabile diritto alla lagna”… ma questi eventi sono spesso trattati in chiave comica.

Di rado si parla di ciò che c’è attorno al ciclo. Come si gestisce il ciclo? Che tipo di assorbenti acquistare, quanti ne servono al giorno? Se siamo in un luogo pubblico e scopriamo di non averne in borsa? Quando prenotare le vacanze? Tutte queste domande costituiscono il substrato della quotidianità, e non penso di esagerare quando dico questo. Con il tempo e con la pratica ci si abitua a non farsi prendere dall’ansia da ciclo, ma il pensiero è sempre lì: quando ci alziamo e diamo uno sguardo fugace alla sedia, quando usciamo e mettiamo un assorbente nel taschino della borsa, perché il ciclo mi verrà tra una settimana, però non si sa mai.

Al momento, la maggior parte di noi vive in una società ben fornita e “gestire” il ciclo è facile. Ma cosa succederebbe se ci fosse un apocalisse zombie, come quello presentato in The Last of Us? Lo scenario è esagerato, e tuttavia simbolico. Come gestire il ciclo in caso di guerra, quando magari non ci sono negozi, quando le materie prime per produrre gli assorbenti scarseggiano? Il ciclo non si ferma e bisogna trovare una soluzione.

Parlando di scenari “esagerati”, mi vengono in mente numerosi prodotti di intrattenimento (che non volevano insegnare nulla sulle abitudini igieniche dei personaggi), in cui però a volte questa domanda ha fatto capolino nella mia mente. In Hunger Games, per esempio: immaginate che sfiga se il ciclo capitasse proprio nella settimana in cui c’è una possibilità su 24 di morire. Tra i doni offerti dagli sponsor forse ci sarebbe dovuta essere una confezione di Tampax o una coppetta.
Quante storie di eroine ci sono nel genere YA, scappano dalle prigioni, rubano ai ricchi, salvano intere nazioni… ma anche loro avranno avuto il ciclo nel corso della trama, no? E io invece sono qui, a chiedere alla mia amica di camminare qualche passo dietro di me e farmi cenno se è tutto a posto.

Qualcuno potrebbe affermare che la fiction esiste per un motivo ben preciso, ovvero per rifuggire i noiosi problemi della quotidianità. Nella fiction non valgono le regole del mondo reale, e di questo il lettore o lo spettatore ne è consapevole. E sinceramente, lo accetto: d’altra parte è raro che in un romanzo venga messa a verbale ogni volta i personaggi vanno di corpo. Insomma, un po’ di privacy.

Però. Però, sulla questione ciclo penso che ogni tanto faccia piacere che se ne parli. Il ciclo non è un’esperienza comune e per questo motivo è ancora “ghettizzato”, e non solo per motivi di “privacy”, ma perché… fa un po’ senso? Ma certo, ragazzi, non è che disquisisco di ciclo ogni giorno con le mie amiche, non è proprio un argomento di conversazione, ma senza che se ne parli, come si fa a fare informazione? Senza le pubblicità degli assorbenti, senza un personaggio femminile che allo scadere delle 8 ore deve cambiarsi, come si normalizza questa cosa… che dopotutto è normale?

Per questo motivo ho apprezzato le scene inserite in TLOU, scene poco invadenti e perfettamente in linea con il personaggio. Il senso è questo: The Last of Us parla di zombie, pandemia, legami famigliari e di Ellie, una ragazzina che, tra tutte le cose che fa, ha anche il ciclo. Fine.
E’ un po’ come la nostra vita: siamo donne, “facciamo cose, vediamo gente” e abbiamo anche il ciclo – non è un’esperienza totalizzante, ma neanche da ignorare. Non affrontare la questione è come ignorare che anche i vip facciano la cacca (pardon my French): semplicemente stupido.

Due scene in cui compaiono degli assorbenti non cambiano nulla per la maggior parte delle persone, ma aggiungono un certo spessore e portano le spettatrici a riflettere: mmh… in effetti, oltre al cibo, mi servirebbe anche qualche assorbente.
Anzi, potremmo eleggere la coppetta mestruale, “svelata” nell’episodio 6, come lo strumento perfetto per gestire il ciclo in situazioni di restrizione. Qualcuno aveva già avuto questa illuminazione? Perché io no.

Alessia

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Il giro del mondo in 20 ricette (e un videogioco in 48 ore)

Quando: 3-5 febbraio 2023
Dove: tutto il mondo



Lo sapevate che una volta all’anno si tiene un evento mondiale che chiama a raccolta appassionati di videogiochi da tutto il mondo? Oggi vi porterò con me alla scoperta della Global Game Jam! Quest’anno è stata la mia prima volta e ho tanti bei ricordi freschi da condividere.

La Global Game Jam è un evento annuale (fine gennaio-inizio febbraio) e vi partecipa gente con ogni sorta di talento, uniti da una particolare ambizione: creare un gioco nell’arco di un weekend (definizione tecnica: jammare). La fauna della Jam: programmatori con i loro codici colorati, illustratori, musicisti che usano gli oggetti più disparati per creare effetti sonori. E poi, anche qualche persona che si è imbucata… quella persona ero io.

In realtà, non mi trovavo lì per caso: sono specializzata in traduzione dei videogiochi e volevo conoscere altre persone “del mestiere”, unendo l’utile al dilettevole, come si suol dire. Su suggerimento di amici e dopo un forte auto-convincimento, mi sono iscritta all’evento della GGJ organizzato dall’associazione Game Art Dev di Bari. Non avevo abilità tecniche da offrire, forse solo la mia mia creatività e la passione per la traduzione, magari per creare un gioco sia in inglese e che in italiano. Ma temevo che mi sarei sentita un pesce fuor d’acqua e dicevo ai miei amici: “vado a vedere cos’è sta Jam, ma poi torno a casa”. Little did I know….

La GGJ si è tenuta dalle 19 di venerdì alle 17 di domenica: più o meno 48 ore per creare un gioco che funzioni. Vi sembra poco tempo? Beh, lo è. C’è chi sceglie di rinunciare al sonno per portare a termine il lavoro, chi invece decide di volare basso con un’idea semplice, cercando di conquistare quelle 5 ore di riposo a notte. L’importante è incontrarsi in una delle sedi, fare team, creare e divertirsi.

Il tema della Jam di quest’anno era “RADICI”, e ognuno era libero di interpretarlo in qualsiasi senso volesse, o anche di fregarsene e creare qualcos’altro. Gli organizzatori di Bari sono stati molto disponibili, trasmettendo la voglia di essere lì a godersi l’esperienza (senza pagare o vincere nulla) e offrendo pranzi a base di focaccia e mortadella, alla barese maniera. Al blocchi di partenza, dunque.

La prima fase della Jam è quella della formazione dei team. Alcune persone si conoscevano già, ma molti altri erano lì tanto sperduti quanto me. Appena è stato dato il via, mi sono voltata verso i miei vicini e in un istinto di sopravvivenza ho detto: vi va di lavorare insieme? In pochi minuti abbiamo creato un team con 3 sviluppatori, 3 modellatori 3D, 1 musicista e me, una linguista. Gli ingredienti c’erano tutti.

Giorno 1: brainstorming. Cosa vi fa venire in mente la parola “radici”? Ognuno aveva un’idea diversa: le radici degli alberi, quelle da mangiare come le carote, oppure quelle culturali. Da un’idea ne nasceva un’altra, andavano a mergersi e a migliorarsi, finché non siamo giunti a una conclusione. Forse era la fame (nel frattempo era arrivata l’ora di cena), ma abbiamo scelto di parlare delle radici culturali attraverso il cibo, inserendo nel nostro gioco tutti quei cibi che appaiono strani e insensati (come la pizza con l’ananas), ma che invece hanno una precisa ragione. Ragioni stravaganti, spesso politiche. Le origini dei cibi ci avrebbero condotto alle radici dei popoli.

Giorno 2: sveglia presto e alle 9 eravamo già operativi. Con l’idea chiara in mente, dovevamo pensare a come realizzarla. Quale sarebbe stata la dinamica di gioco? Un platform? Una visual novel? Che stile avrebbe avuto la grafica? Quanti tasti sullo schermo? Quali parole usare per raccontare la storia di questi cibi?
Tutti hanno lavorato intensamente e a me pare ancora una magia vedere sullo schermo dei modelli 3D a forma di kebab realistico. Oppure, pensare che (moltissime) linee di codice alfanumerico possano trasformarsi in immagini e parole sensate. Meglio lasciare i segreti agli esperti, io mi godo l’effetto stupore.

Io mi sono occupata di fare ricerche e scrivere le descrizioni dei cibi in inglese e italiano. La fase di ricerca è stata molto interessante e delicata: certo, era “solo” un gioco, ma non potevamo rischiare di diffondere false informazioni. Inoltre, come abbiamo presto imparato, tutte queste ricette “strane” che stavamo raccogliendo erano strane per una ragione: derivavano dall’incontro di più popoli, di solito per immigrazione e colonizzazione… dunque il fact checking doveva essere quanto più accurato possibile.

Giorno 3: eravamo avanti sulla tabella di marcia. Tutti i testi erano scritti e tradotti, tutti i disegni consegnati. Il codice, quasi completo. Stavamo cantando vittoria… ma forse era troppo presto. Quando abbiamo iniziato a unire i lavori di tutti in un unico grande progetto, ci siamo resi conto di quanto fossero vicine le 17, orario in cui tutti i giochi dovevano essere caricati sul sito della GGJ. La stanchezza e le ore passate davanti allo schermo iniziavano a farsi sentire e tutto l’hype che avevo provato fino a quel momento è iniziato a calare quando abbiamo riscontrato problemi tecnici. Il bello della diretta, e in generale della programmazione a quanto pare.

Tranquilli, questa è una storia a lieto fine: i programmatori sono riusciti a scovare i maledettissimi bug e far funzionare tutto, la Jam era salva! Alla Jam di Bari sono stati creati ben 5 giochi, 5 idee diverse per trama e stile. Pensate dunque a quanti nuovi piccoli giochi esistono nel mondo oggi rispetto a 3 giorni fa. Impressionante, vero?

Tempo di svelare il nostro gioco!

La cultura affonda le proprie radici nel cibo… ma vi siete mai chiesti le origini delle diverse ricette

Si chiama “Foods & Roots” ed è un drag-and-drop. Il giocatore vedrà di volta in volta l’immagine di una pietanza con il nome e dovrà posizionarla correttamente sul globo terrestre. Venti ricette, cinque tentativi ciascuna e un sistema di indirizzamento: se si clicca sul Paese sbagliato, si leverà un vento che punterà nella direzione giusta, la cui intensità debole-media-forte indicherà quanto lontano è l’obiettivo. Pensate sia facile? Allora non avrete problemi nell’indicare il Paese di origine della pizza con l’ananas…

Il gioco è disponibile qui. Ѐ un gioco molto interessante (sono di parte, eh), perfetto da giocare sia da soli che con gli amici per cercare di azzeccarne il più possibile. Mi farebbe molto molto piacere leggere un vostro parere qui nei commenti. L’impegno è stato tanto, il tempo limitato, il risultato sicuramente imperfetto, ma noi siamo molto fieri del risultato!

Tre giorni fa nulla di tutto questo esisteva. Non esisteva neanche che io mi iscrivessi da sola ad un evento nel quale c’entravo molto poco… e sono contenta di averlo fatto. Ho assistito alla creazione di qualcosa di cui sono parte anche io. Senza di me, e senza ognuno degli altri membri del team, sarebbe uscito un gioco diverso: questo determinismo lo rende ancora più speciale.

Sarà scontato da dire, ma maybe the real treasure is the friends we made along the way. Abbiamo lavorato a stretto contatto per ore e ore, tutti concentrati su un obiettivo comune. Dall’essere sconosciuti al prendere confidenza, mangiare insieme pranzo e cena e scoprire interessi in comune, dare e ricevere consigli di lavoro e di vita. Ho conosciuto persone che sono davvero brave in quello che fanno e per tre giorni siamo diventati amici, poi il resto si vedrà (ora che ci penso, questa situazione mi fa venire in mente la trama del film Queen).

E’ un’esperienza che rifarei. Avrei sempre un po’ di paura? Sì, ma penso che mi convincerei di nuovo ad andarci. Chissà, magari anche partecipando a Jam in altre città d’Italia o d’Europa, le possibilità sono davvero tante. Buon gioco a tutti e spero che parteciperete alla prossima Jam, ovunque voi siate!

Crediti al team di “Foods & Roots” (chissà se incontreranno mai questo articolo sull’Internet): Alberto Putignano, Alessia Schiavone, Federica Asia Zambetta, Lucia Patrono, Stefano Romanelli, Stefano De Robertis, Stefano Sanitate, Riccardo Reina

Alessia

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La tranquillità del ciottolo

Una delle frasi meme che più mi fanno ridere, e che trovo particolarmente utilizzabile anche nella vita reale, è una citazione da Phineas e Ferb, che forse avrete già letto in giro e dice: if I had a nickel for every time [a thing happened], I’d have two nickels, which isn’t a lot, but it’s weird that it happened twice. Proprio in virtù di questa frase meme, mi sono convinta a scrivere l’articolo di oggi, perché per ben due volte mi sono ritrovata di fronte a una metafora che avesse a che fare con… i ciottoli.

Ma perché i ciottoli? Spesso ho trovato il ciottolo utilizzato come metafora per rappresentare uno stato di quiete e immobilità pacifica e, per quanto possa sembrare strano – addirittura un po’ da svitati – credo che di tanto in tanto faccia bene immedesimarsi in questo ciottolo ideale.

Faccio un passo indietro e vi do un po’ di contesto per questa riflessione. Da un anno pratico yoga quasi tutti i giorni. Mi alleno a casa e – lo ammetto con sincerità e con fierezza – di solito lo faccio in pigiama prima di andare a dormire. Lo yoga per me ha rappresentato la svolta nella mia attività fisica. Ho sempre voluto allenarmi, ma odiavo andare in palestra e anche gli allenamenti in casa con le serie di addominali e squat proprio non facevano al caso mio… non sono mai riuscita a superare la prima settimana.

Poi, ho scoperto lo yoga. L’ho scoperto in un momento in cui cercavo un modo – qualsiasi modo – per allentare il nodo che provavo in gola e in petto. Ho iniziato a seguire il canale Yoga With Adriene, che consiglio vivamente, qualunque sia il vostro livello di preparazione fisica. Ho imparato ad amare lo yoga e a divertirmi ogni volta che mi srotolavo il tappetino e avviavo la lezione.

Come dice sempre Adriene, the hardest part is showing up on the mat, la parte più difficile è proprio quella di prendere il tappetino, srotolarlo a terra e presentarsi a lezione. Penso spesso a questa frase, decontestualizzata. La parte più difficile nella vita è presentarsi ed essere presenti, che è anche la parte più importante… nelle nostra relazioni con noi stessi e con gli altri. Nessun gesto vale di più della presenza.

Fatto questo, seduti sul tappetino, lo yoga è lo sport più facile del mondo. E non perché sia facile a livello pratico, ma perché con gentilezza si adatta ai corpi di tutti. Lo yoga è una pratica gentile, fatta di introspezione e di respiri profondi, di momenti in cui ci si ripiega su se stessi e altri in cui si tira in alto la testa per guardare con l’occhio della mente qualcosa da raggiungere. Inoltre, una cosa bellissima che ho notato è che lo yoga non mi stanca, non mi fa faticare e per questo è possibile allenarsi anche mezzora ogni giorno e vedere i risultati.

Certo, ogni tanto un minimo ci si sente tirare e bruciare i muscoli, ma tutto in amicizia! Nonostante non faccia soffrire, vi posso garantire che lo yoga ha i suoi effetti: adesso ho dei bei bicipiti (e quando sono davanti allo specchio, mi diverto a flexarli ridendo come una scema), riesco a tenere i plank per molto più tempo e a toccare ben oltre la punta dei piedi. Dette così, sembrano cavolate, ma sono soddisfazioni e prima di ridere della mia scarsa flessibilità… provate voi a toccarvi la punta dei piedi e vediamo un po’!

Ci sono anche benefici per la mente e l’umore. Lo yoga pone molta enfasi sulla respirazione e così, quando mi rendo conto di star respirando in modo “superficiale” o di star trattenendo la tensione in qualche parte del corpo, mi prendo un attimo per fare dei respiri profondi. Non è magia, è solo maggior consapevolezza. Respirare più profondamente non cura l’ansia, ma aiuta a sopportarla. Lo yoga aiuta a guardare la situazione dall’esterno e prendere tempo: molte volte quando ero turbata ho scelto di smettere per un attimo di pensare e di fare una sessione di yoga per concentrarmi sugli esercizi e sulla respirazione e mettere un po’ di distanza tra me e quella preoccupazione.

Infine, lo yoga mi fa sorridere. La parte migliore è la fine dell’allenamento, che si solito finisce distesi a pancia in su. Allora, prende il sopravvento una parte infantile di me (anzi, forse una parte che nemmeno da bambina facevo uscire, visto che avevo paura anche di fare le capriole), e inizio a rotolarmi all’indietro o a provare qualche posizione particolare che ancora non mi riesce, prima di ribaltarmi malamente per terra. E mi viene da ridere, da sola nella mia stanza, mi sento felice di usare il mio corpo in questo modo.

Ma tutto questo… cosa c’entra con i ciottoli? Una delle posizioni che non mi aveva mai ispirato era la posizione del fanciullo o balasana. Ci sono diverse varianti di questa posizione e quella che preferisco è la versione estesa, con le braccia in avanti (figura 1), mentre quella che non mi piaceva era la posizione del fanciullo tradizionale, con le braccia tirate indietro (figura 2).

La posizione tradizionale, a destra, non mi piaceva finché, durante una lezione Adriene (la ragazza dei video di cui parlavo prima) non ha fatto un paragone proprio con un ciottolo. Disse qualcosa di simile: immaginate di essere un ciottolo sulla riva di un lago e di sentire le onde leggere che accarezzano il vostro corpo seguendo il ritmo del respiro. Al sentire queste parole, ho immaginato la scena e per la prima volta ho visto un senso in questa posizione, che fino a quel momento non mi aveva trasmesso nulla.

L’idea di essere un ciottolo che se ne sta semplicemente lì, immobile. Rimanere così per una manciata di secondi, con la testa china sul tappetino e il rumore del proprio respiro che si risuona nello spazio tra il volto e il petto. Le braccia lungo i fianchi, tirate indietro, quasi a volersi arrotondare nella forma di un ciottolo. Con l’occhio della mente, immagiamo di essere un ciottolo senza pretese, senza scadenze, senza aspettative.
Può sembrare deprimente, ma in realtà è un pensiero che dona tranquillità. Certo, la vita deve andare avanti, ma per un attimo ci si può rivolgere dentro se stessi (letteralmente a livello fisico) e ascoltare il silenzio attorno, percepire il tempo che passa e capire che non accade nulla di spaventoso se ci fermiamo per un po’, al contrario di quanto crediamo di solito, tutti presi dal fare. Che non stiamo rimanendo indietro da nulla, che siamo lì dove dobbiamo essere in quel momento.

La seconda volta che ho incontrato una metafora sui ciottoli è stato per lavoro. Infatti, ho collaborato alla traduzione italiana di un videogioco che si chiama Froggy Pot (e se siete arrivati a leggere fin qui, credo che quel gioco faccia al caso vostro). La protagonista di questo gioco è Froggy, una ragazza vestita da ranocchia, che si trova a mollo in una pentola che pian piano inizia a bollire. Chiara ispirazione è la cosiddetta “sindrome della rana bollita”, descritta da Peter Senge:

Se mettiamo una rana in acqua a temperatura ambiente rimarrà calma. Quando la temperatura sale da 21 a 26 gradi Celsius, la rana non fa nulla e sembra persino divertirsi nell’acqua. Con l’aumentare della temperatura, la rana è sempre più stordita e alla fine non riesce più ad uscire dalla pentola. Anche se nulla lo impedisce, la rana resterà lì e morirà bollita.

Questo gioco racconta le paure di Froggy nel sentirsi inadeguata, la difficoltà nel reagire dopo la morte di una persona cara, così come la felicità che ci possono dare le piccole cose. I pensieri negativi, come acqua che bolle lentamente, paralizzano Froggy. Il giocatore, che ha la possibilità di guardare con occhio critico questa situazione dall’esterno, può aiutare Froggy a capire che non tutto è perduto e che può ancora uscire dalla pentola e vivere, un giorno alla volta, senza paragoni o pretese.

E a un certo punto, il gioco dice così:

La prima volta che incontrai queste frasi, mi parve bizzarro. Ecco il mio secondo nichelino, che non è molto, ma è strano che sia capitato due volte, no? Ci deve essere qualcosa in questo famoso ciottolo che ispira serenità. Anche la parola stessa… ciottolo… quanto è bella, una parola da abbracciare.

Ogni tanto, quindi, penso ai ciottoli sulla riva di un lago o di una spiaggia e l’immagine mi trasmette calma. Spero che anche per voi sia così. Spero di aver condiviso con voi questa prospettiva curiosa che già altre persone avevano percepito e trasmesso, ognuno attraverso i propri mezzi, come una lezione di yoga o un videogioco. Il mondo è davvero piccolo e a volte percepiamo le stesse cose, anche se siamo persone diverse in luoghi diversi.

Vi invito a dare una chance allo yoga, come sport, come passatempo, come antistress: può essere qualsiasi cosa vi serva, ma sono sicura che aggiungerà qualcosa di valore alle vostre giornate. E vi consiglio anche di giocare a Froggy Pot accompagnati dalla traduzione italiana del mio team di lavoro :D

Alessia

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La leggenda di Aang: tornare bambini per diventare adulti

Acqua, Terra, Fuoco, Aria.
Molto tempo fa nel mondo regnava la più completa armonia, poi tutto cambiò quando la nazione del Fuoco decise di attaccare. Solo l’Avatar, padrone di tutti e quattro gli elementi poteva fermarli, ma quando il mondo aveva più bisogno di lui scomparve.

È così che inizia una delle migliori serie animate che io abbia mai visto. Sto parlando di Avatar: La leggenda di Aang (anche conosciuta con il titolo inglese Avatar: The Last Airbender). Forse qualcuno la guardava da bambino sui classici canali di cartoni animati. Io, invece, l’ho scoperta solo di recente: evidentemente ho vissuto la mia infanzia sotto una pietra, perché sono anche una delle poche a non aver mai usato MSN...

Avatar: La leggenda di Aang è ambientato in un tempo passato e in un mondo fantastico, costituito (in tempi di pace) da quattro nazioni: la tribù dell’Acqua, il regno della Terra, la nazione del Fuoco e i nomadi dell’Aria. Oltre alla gente comune, in questo mondo esistono alcune persone speciali che possiedono il cosiddetto dominio, ovvero riescono a controllare uno dei quattro elementi naturali. L’equilibrio tra gli elementi assicura la pace, ma quando uno di essi prende il sopravvento, il mondo cade nel caos.

I dominatori possono controllare solo l’elemento corrispondente alla propria nazione, ma esiste un dominatore in particolare, uno solo nello spazio e nel tempo, che invece può dominare tutti e quattro gli elementi: l’Avatar. La parola “Avatar” significa incarnazione di una divinità e l’Avatar è proprio questo: un dio potente che mantiene in equilibrio il mondo, ma allo stesso tempo è anche umano, un uomo o una donna che vive tra la gente comune. Inoltre, l’Avatar è sempre e solo uno, lo stesso spirito che si reincarna all’infinito.

All’inizio della serie il mondo è nel caos: la nazione del Fuoco vuole conquistare il mondo e già i nomadi dell’Aria sono estinti. Il leader supremo non si accontenta di invadere gli altri territori, ma vuole trovare l’Avatar, così da controllare tutti gli elementi ed essere invincibile. Unico problema: l’Avatar sembra essere scomparso da quasi 100 anni… ma un giorno, mentre i fratelli della tribù dell’Acqua, Katara e Sokka, sono alle prese con i loro bisticci, si imbattono in un uno strano iceberg in cui riposa Aang, l’ultimo dominatore dell’Aria superstite. L’Avatar.
Aang è ancora un ragazzino – nonostante i 100 anni di ibernazione e i suoi centinaia di anni di vite passate – ma conosce il destino che lo aspetta: riportare equilibrio nel mondo.

In questa impresa non sarà solo! Con lui ci saranno la dominatrice dell’Acqua Katara e suo fratello Sokka (just a guy with a boomerang), insieme ad Appa, il bisonte volante sul quale viaggeranno. Purtroppo il trio sarà accompagnato anche da un altro, più sgradevole compagno di viaggio: Zuko, erede al trono della nazione del Fuoco, diseredato e alla ricerca disperata dell’Avatar proprio per riscattare il proprio onore. Aang dovrà prima di tutto imparare a dominare gli altri elementi e, solo quando sarà pronto, mettere fine alla guerra. Tra uno scontro e l’altro, ci sarà tempo di stringere amicizie, fare esperienze, divertirsi e soprattutto crescere.

Il punto di forza della serie sono i personaggi, tutti caratterizzati in modo unico e soprattutto attingendo a una vasta gamma di modelli. C’è Toph, una bambina cieca, che grazie al suo dominio della Terra riesce a vivere in armonia con l’ambiente esterno. C’è Suki, una guerriera Kyoshi che combatte per la resistenza; Iroh, lo zio di Zuko, un anziano saggio e fissato con il the, che saprà darvi i migliori consigli di vita, e molti altri ancora. Il character developement che ognuno di questi personaggi affronterà nel corso delle tre stagioni è davvero meraviglioso. Di solito è difficile essere contenti della conclusione dei singoli personaggi, ma con Avatar posso ritenermi soddisfatta: ogni personaggio ha avuto ciò che meritava (soprattutto Zuko).

Un grande apprezzamento va anche al world building, ovvero tutto ciò che riguarda l’ambientazione e la lore, per il quale i creatori hanno fatto accurate ricerche, ripagate dall’apprezzamento dei fan. Il mondo di Avatar si ispira all’arte e alla mitologia asiatica, combinando influenze cinesi, coreane e indiane, il tutto in modo rispettoso e anche divulgativo. Dal punto di vista visivo, queste influenze si notano negli abiti e nello stile di combattimento di ogni nazione: l’aspetto di Aang ricorda quello di un monaco buddhista, i dominatori dell’Acqua vestono con parka Inuit e combattono in stile Tai Chi. Nel regno della Terra ci sono influenze coreane; infine, gli abiti dei dominatori del Fuoco sono ispirati al sud-est asiatico e combattono in stile Shaolin.

La pergamena del dominio dell’Acqua, da cui Katara impara nuove combinazioni di movimenti

Ogni nazione, quindi, ha una propria identità e alla fine vi sentirete di aver compiuto un vero viaggio in queste culture e di conoscerne meglio i principi, soprattutto spirituali. L’aspetto “morale”, infatti, non è da sottovalutare: personaggi come Aang, Iroh e gli altri guru che il gruppo incontrerà nel corso della storia, sapranno toccarvi davvero il cuore con le loro parole e farvi scendere quel tipo di lacrime che ti fanno sentire bene quando le versi. Alla fine, la morale è questa: guarda dentro te stesso e non aver paura di scoprire la verità, anche se non è la verità che ti aspetti. Penso che guardare Avatar sia un buon modo per comprendere meglio la stratificazione delle nostre emozioni.

Adesso, so cosa starete pensando: va bene, è una serie culturalmente interessante, introspettiva, ben scritta, ma… io vorrei guardare qualcosa per divertirmi! Ancora una volta, Avatar fa al caso vostro! Prima di tutto è una serie che diverte: vi ritroverete a ridere alle battute stupide di Sokka, ai commenti sarcastici di Toph e alle disavventure del venditore di cavoli. Tutti gli aspetti più “seri” sono immersi in questo piacevole substrato: questa serie è precious e wholesome.

Fidatevi di me e guardate questa serie (disponibile su Netflix): lasciatevi stupire nello stesso modo in cui io, una 24enne, mi sono commossa davanti a una serie per ragazzini. Esistono pochi prodotti mediatici che, seppur scritti per un certo target, riescono a comunicare il loro messaggio a tutti, e Avatar è tra questi.

Alessia

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She took the midnight train going… to Europe

Oggi desidero tornare alle mie origini: nel lontano 2017, agli inizio del blog, avevo scritto la recensione per un film di Bollywood, Ram-Leela, un retelling di Romeo e Giulietta. Era il mio primo film bollywoodiano, ed è risaputo che la prima volta non si scorda mai. Se non avete mai visto un film di Bollywood, forse non ne conosce la caratteristica più iconica… e no, non parlo delle musiche e dei balli, ma della lunghezza di queste pellicole: dalla due ore in su. Ma non spaventatevi, perché con il film giusto quelle due ore passano che è un piacere! Il film Queen mi ha prima di tutto sorpresa: lo sviluppo della trama, i legami tra i personaggiE’ difficile che un film mi sorprenda tanto da spingermi a parlarne, ma questo è il caso di Queen.

Protagonista del film è Rani (il suo nome significa “regina”, come il titolo del film). Rani è una ragazza di Delhi cresciuta in una amorevole famiglia, legata sì alle tradizioni, ma allo stesso tempo comprensiva. Manca pochissimo al matrimonio tra Rani e Vijay, e attraverso una serie di flashback sono raccontati i momenti più salienti della loro conoscenza, agevolata anche dalla conoscenza tra le due famiglie. Insomma, tutto sembra andare per il verso giusto… ma il giorno prima del matrimonio (e immaginiamo quanto i matrimoni indiani siano elaborati) Vijay decide di lasciare Rani con una serie di scuse: lui vuole viaggiare, andare all’estero, mentre lei è troppo tradizionale.

Distrutta dalla notizia e imbarazzata di fronte a tutti i suoi parenti, Rani si barrica in camera, circondata dagli ormai inutili regali di nozze e dal pensiero dei suoi progetti futuri… E’ forse un lampo di lucidità, quello che attraversa la mente di Rani, o forse un sano egoismo: ciò che attendeva più di tutto era andare in viaggio di nozze e adesso… non solo non si sposa, ma dovrebbe perdere anche questa possibilità? No, pensa Rani, quello era il mio sogno, e me lo riprendo! E in fondo, è stato già tutto pagato, perché non farlo? Io non la biasimerei di certo!

Dunque, Rani parte, tra la preoccupazione dei genitori, ma anche il loro sostegno. Le sue destinazioni sono due splendide città europee, Parigi e Amsterdam, un viaggio che Rani inizierà in solitaria, spaventata sia per non essere mai stata prima all’estero, sia per la barriera linguistica, ma che concluderà portandosi nel cuore quattro nuovi amici di diversa nazionalità e nuove consapevolezze.

L’aspetto più bello del film sono proprio i legami che Rani stringe con i suoi temporanei compagni di viaggio. La sua prima conoscenza nella sconosciuta Parigi sarà una ragazza disinvolta di nome Vijayalakshmi (che, per sfortuna di Rani, si fa chiamare con il diminutivo Vijay, che le ricorderà proprio il suo ex fidanzato), che lavora come cameriera nel suo albergo. Nella seconda tappa, invece, ad Amsterdam, per una serie di vicissitudini Rani sarà costretta ad alloggiare in un tipico youth hostel e a condividere la camera con tre ragazzi internazionali: Taka dal Giappone, Tim dalla Francia e Oleksander dalla Russia. Titubante e diffidente all’inizio, pian piano Rani si apre a queste persone, condividendo parte dei rispettivi viaggi e vite.

Seguire Rani nel suo viaggio mi ha fatto venire una voglia matta di andare in Interrail, non solo per visitare le città e le sue bellezze, ma anche per incontrare persone di altre nazionalità unite dalle stesse circostanze del viaggio: sconosciuti che si incontrano solo per un breve momento e solo per caso, lasciando però un segno importante. Molto poetico, forse utopico, ma è ciò che questo film mi ha trasmesso.

Un aspetto interessante del film è che Rani conosce poche parole in inglese, e per questo motivo fatica a comunicare. Questo sarebbe potuto risultare in un film lento ed estenuante per lo spettatore, di fronte a una protagonista che non riesce a parlare con gli altri personaggi. Invece no: il film esprime questa barriera linguistica, ma senza renderla una barriera alla visione del film in sé. Questo è particolarmente interessante per le scene di Amsterdam, dove Rani si trova “linguisticamente” sola per la prima volta, quando invece a Parigi aveva avuto sempre la compagnia della connazionale Vijayalakshmi, e inoltre i tre ragazzi con cui fa amicizia sono di nazionalità tutte diverse.

La parte ambientata ad Amsterdam è proprio la mia preferita: Rani e i suoi amici parlano un inglese maccheronico, parlano a gesti e per immagini, eppure riescono a capirsi e a organizzarsi per fare tante cose insieme: andare a un concerto, partecipare a una gara di cucina… Quello che ne emerge è una amicizia sicuramente temporanea, legata al tempo limitato che possono condividere, ma in cui ognuno mostra le parti più importanti di sé, che risultano anche essere elementi in comune: la mancanza dei genitori lontani, il sostegno durante i momenti di difficoltà e il superamento di alcune ferite.

Un’ultima cosa che vorrei segnalare, infine, è la rappresentazione dell’italianità. Infatti, Rani incontrerà il proprietario di un ristorante italiano ad Amsterdam. I due si incontrano in una circostanza conflittuale: dopo aver ordinato un piatto italiano, Rani afferma di trovarlo poco saporito e vorrebbe aggiungerci più spezie, scatenando ovviamente lo sdegno del cuoco italiano. Nonostante questo personaggio sia secondario, ho davvero apprezzato la sua rappresentazione. Certo, è uno stereotipo, ma secondo me si tratta di uno stereotipo a cui siamo quasi affezionati: l’italiano fermamente convinto che la sua sia la cucina migliore del mondo. A questo si aggiunge anche il fatto che l’attore che lo interpreta è un vero italiano (cosa non scontata): parla inglese con un accento molto credibile e gesticola proprio come un italiano! Insomma, non mi aspettavo proprio questo personaggio, ma sono rimasta davvero sorpresa!

Bruschetta mista, prosciutto e melone, zucchina ripiena. La lavagna con il menù mi ha fatto volare 🤌🤌

Il viaggio di Rani si conclude con una maggiore consapevolezza di ciò che c’è lì fuori, ma anche di cosa si dimostra essere importante per lei, alla fine di tutto. Queen mi ha commosso, divertito, ispirato. Vi consiglio vivamente questo film e fatemi sapere la vostra!

Alessia

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Hogwarts a Lecce: guida alle biblioteche (parte 2)

Il filo magico che unisce Hogwarts a Lecce continua a dipanarsi. Per leggere la prima parte di questa serie, clicca qui. In questo articolo vi presenterò due splendide biblioteche a Lecce, da visitare prima di tutto da un punto di vista estetico e architettonico.

  • Ex monastero degli Olivetani

Questa biblioteca si trova in un posto inusuale: all’interno di un ex monastero, vicino al cimitero monumentale di Lecce. Inoltre, i chiostri del monastero-biblioteca sono collegati alla adiacente chiesa dei SS Nicolò e Cataldo. Tuttavia, non c’è nulla di tenebroso nella sua atmosfera! Anzi, direi che l’edificio emana un’atmosfera da college inglese che a mio parere concilia lo studio e gli dona una certa estetica. L’ex monastero, un tempo sede dei monaci Olivetani, oggi appartiene all’Università del Salento ed è attualmente sede del dipartimento di storia, con aule ed uffici dei professori.

Appena entrata nel monastero, sono rimasta affascinata dall’architettura, che mi ha subito ricordato gli interni di Hogwarts e le università di Oxford e Cambridge, dove sono girate alcune scene dei film. Chi, tra i fan di Harry Potter, non ha fantasticato almeno una volta di poter frequentare Hogwarts, pensando che lì forse studiare sarebbe stato più piacevole, così immersi in quell’atmosfera di antica sapienza? Io sono sono tra quelle persone. Insomma, vi lascio qualche foto, così potete giudicarne la somiglianza, almeno per quanto riguarda le vibes.

L’ex-monastero degli Olivetani vale la pena di essere visitato prima di tutti come turisti, e poi come studenti. La sala lettura si trova al primo piano: è un lungo corridoio dall’arredamento male assortito: divanetti e poltroncine, scrivanie e tavolini rotondi… Una volta lessi (fonte attendibile: catalogo Ikea) che quando la tavola è circondata da sedie di colori e tipologia diversa, il senso di convivialità aumenta, e mi trovo molto d’accordo: il poter scegliere la propria postazione di studio in base a come si preferisce in quel momento (più serio o più spaparanzato) aumenta la voglia di fare. Inoltre, dalla sala lettura si può accedere alla terrazza del monastero, dove godersi una meritata pausa sullo sfondo e del cimitero vicini. Ripeto: nient’affatto macrabro. Direi più… catartico!

Terrazza. Sullo sfondo, campanile e cupola della chiesa dei SS Nicolò e Cataldo
  • Biblioteca Bernardini (all’interno dell’ex Convitto Palmieri)

Questa biblioteca è la chiudifila, ma soltanto perché l’ho scoperta troppo tardi, purtroppo! L’ex Convitto Palmieri è un edificio storico con un grande cortile antistante, fiancheggiato su tre lati da un colonnato che ne da un magnifico aspetto classicheggiante. All’interno si trovano una serie di spazi sia a cielo aperto (per riposarsi seduti a dei colorati tavolini), sia al chiuso, che ospitano delle mostre, come quella dedicata all’evoluzione della stampa in cui poter ammirare vecchie presse e i primi Macintosh.

Il cortile esterno

Ricordo in modo vivido il momento in cui ho scoperto la biblioteca Bernardini. Il Convitto ospita regolarmente festival e manifestazioni, e con un’amica quel giorno ero andata a vedere il festival del fumetto. Non essendoci mai stata, la mia amica mi ha guidato per un breve tour, dicendomi che, se avevo adorato la biblioteca degli Olivetani, allora questa mi sarebbe piaciuta ancora di più. Quindi, hype alle stelle… e le mie aspettative non sono state deluse, anzi direi ampiamente superate!

Biblioteca Bernardini

Mi pareva di essere entrata nella biblioteca di Hogwarts che tante volte avevo visto sullo schermo, con gli scaffali dall’aspetto antico colmi di libri e busti di personaggi importanti che osservavano gli studenti intendi a studiare. Entrando in questa biblioteca ci si sente in soggezione, perché si percepisce più che in qualsiasi altro luogo la necessità di fare assoluto silenzio. Forse non è la biblioteca più adatta per studiare regolarmente, ma se si cerca una particolare concentrazione, e se volete immergevi in atmosfera hogwartsiana, dovete assolutamente farci un salto.

Qui si conclude il nostro magico viaggio! Adesso tocca a voi: durante il prossimo viaggio in Puglia, dedicate una sosta in queste due splendide biblioteche e raccontatemi le vostre impressioni!

Alessia