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What’s in my bag: edizione apocalisse

Qualche giorno fa ho finito la serie tv The Last of Us, ispirata al famoso videogioco, e che sta spopolando ovunque, rendendo l’attore Pedro Pascal la crush di qualsiasi essere umano bazzichi l’internet. E come non essere d’accordo…
Tuttavia, oltre ai pregi e difetti della serie, sono molto contenta che TLOU abbia toccato con poche e semplici scene una tematica importante: il ciclo mestruale in situazioni disagianti, quale potrebbe essere un apocalisse “zombie”.

Un recap delle scene in questione – tranquilli, non ci sono spoiler, anche perché ho la memoria di un pesce rosso.
Nell’episodio 3, durante una perlustrazione alla ricerca di armi e cibo, Joel avverte Ellie che la speranza di trovare qualcosa di utile è bassissima. Ellie, però, è testarda: scende in uno scantinato… ed effettivamente non c’è nulla di valore adeguato a sopravvivere agli Infetti. Nulla, fatta eccezione per una scatola di Tampax. Ellie sgrana gli occhi, esulta e se la mette nello zaino. E’ stato in questo momento che ho pensato: ah… beh, ha senso…

Nell’episodio 6, invece, Ellie e Joel ritrovano un po’ di normalità all’interno di una comune. Qui ricevono cibo, un letto in cui riposarsi. Dopo una doccia rigenerante, Ellie trova sul letto un pacchetto: dentro c’è una coppetta mestruale, con tanto di foglietto illustrativo. Ellie è divertita, forse perché non ne ha mai vista una, la telecamera scorre sui disegni che mostrano come piegarla e inserirla.

Sono rimasta piacevolmente colpita da questi pochi minuti di filmato, che però hanno un grande impatto sullo spettatore – e soprattutto sulle spettatrici. In primis, la rarità di vedere rappresentato nei media – film o romanzo che sia – il ciclo mestruale. Rettifico: rappresentato in modo serio, il che non significa necessariamente pesante e didascalico. Infatti, spesso il ciclo viene utilizzato come diversivo: il ciclo o la la PMS portano al malumore, a voglie dei cibi più disparati, attacchi emotivi, figure imbarazzanti in pubblico.
E sì, c’è anche questo, non sono “falsi miti” – anzi io stessa rivendico il mio “inalienabile diritto alla lagna”… ma questi eventi sono spesso trattati in chiave comica.

Di rado si parla di ciò che c’è attorno al ciclo. Come si gestisce il ciclo? Che tipo di assorbenti acquistare, quanti ne servono al giorno? Se siamo in un luogo pubblico e scopriamo di non averne in borsa? Quando prenotare le vacanze? Tutte queste domande costituiscono il substrato della quotidianità, e non penso di esagerare quando dico questo. Con il tempo e con la pratica ci si abitua a non farsi prendere dall’ansia da ciclo, ma il pensiero è sempre lì: quando ci alziamo e diamo uno sguardo fugace alla sedia, quando usciamo e mettiamo un assorbente nel taschino della borsa, perché il ciclo mi verrà tra una settimana, però non si sa mai.

Al momento, la maggior parte di noi vive in una società ben fornita e “gestire” il ciclo è facile. Ma cosa succederebbe se ci fosse un apocalisse zombie, come quello presentato in The Last of Us? Lo scenario è esagerato, e tuttavia simbolico. Come gestire il ciclo in caso di guerra, quando magari non ci sono negozi, quando le materie prime per produrre gli assorbenti scarseggiano? Il ciclo non si ferma e bisogna trovare una soluzione.

Parlando di scenari “esagerati”, mi vengono in mente numerosi prodotti di intrattenimento (che non volevano insegnare nulla sulle abitudini igieniche dei personaggi), in cui però a volte questa domanda ha fatto capolino nella mia mente. In Hunger Games, per esempio: immaginate che sfiga se il ciclo capitasse proprio nella settimana in cui c’è una possibilità su 24 di morire. Tra i doni offerti dagli sponsor forse ci sarebbe dovuta essere una confezione di Tampax o una coppetta.
Quante storie di eroine ci sono nel genere YA, scappano dalle prigioni, rubano ai ricchi, salvano intere nazioni… ma anche loro avranno avuto il ciclo nel corso della trama, no? E io invece sono qui, a chiedere alla mia amica di camminare qualche passo dietro di me e farmi cenno se è tutto a posto.

Qualcuno potrebbe affermare che la fiction esiste per un motivo ben preciso, ovvero per rifuggire i noiosi problemi della quotidianità. Nella fiction non valgono le regole del mondo reale, e di questo il lettore o lo spettatore ne è consapevole. E sinceramente, lo accetto: d’altra parte è raro che in un romanzo venga messa a verbale ogni volta i personaggi vanno di corpo. Insomma, un po’ di privacy.

Però. Però, sulla questione ciclo penso che ogni tanto faccia piacere che se ne parli. Il ciclo non è un’esperienza comune e per questo motivo è ancora “ghettizzato”, e non solo per motivi di “privacy”, ma perché… fa un po’ senso? Ma certo, ragazzi, non è che disquisisco di ciclo ogni giorno con le mie amiche, non è proprio un argomento di conversazione, ma senza che se ne parli, come si fa a fare informazione? Senza le pubblicità degli assorbenti, senza un personaggio femminile che allo scadere delle 8 ore deve cambiarsi, come si normalizza questa cosa… che dopotutto è normale?

Per questo motivo ho apprezzato le scene inserite in TLOU, scene poco invadenti e perfettamente in linea con il personaggio. Il senso è questo: The Last of Us parla di zombie, pandemia, legami famigliari e di Ellie, una ragazzina che, tra tutte le cose che fa, ha anche il ciclo. Fine.
E’ un po’ come la nostra vita: siamo donne, “facciamo cose, vediamo gente” e abbiamo anche il ciclo – non è un’esperienza totalizzante, ma neanche da ignorare. Non affrontare la questione è come ignorare che anche i vip facciano la cacca (pardon my French): semplicemente stupido.

Due scene in cui compaiono degli assorbenti non cambiano nulla per la maggior parte delle persone, ma aggiungono un certo spessore e portano le spettatrici a riflettere: mmh… in effetti, oltre al cibo, mi servirebbe anche qualche assorbente.
Anzi, potremmo eleggere la coppetta mestruale, “svelata” nell’episodio 6, come lo strumento perfetto per gestire il ciclo in situazioni di restrizione. Qualcuno aveva già avuto questa illuminazione? Perché io no.

Alessia

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Il giro del mondo in 20 ricette (e un videogioco in 48 ore)

Quando: 3-5 febbraio 2023
Dove: tutto il mondo



Lo sapevate che una volta all’anno si tiene un evento mondiale che chiama a raccolta appassionati di videogiochi da tutto il mondo? Oggi vi porterò con me alla scoperta della Global Game Jam! Quest’anno è stata la mia prima volta e ho tanti bei ricordi freschi da condividere.

La Global Game Jam è un evento annuale (fine gennaio-inizio febbraio) e vi partecipa gente con ogni sorta di talento, uniti da una particolare ambizione: creare un gioco nell’arco di un weekend (definizione tecnica: jammare). La fauna della Jam: programmatori con i loro codici colorati, illustratori, musicisti che usano gli oggetti più disparati per creare effetti sonori. E poi, anche qualche persona che si è imbucata… quella persona ero io.

In realtà, non mi trovavo lì per caso: sono specializzata in traduzione dei videogiochi e volevo conoscere altre persone “del mestiere”, unendo l’utile al dilettevole, come si suol dire. Su suggerimento di amici e dopo un forte auto-convincimento, mi sono iscritta all’evento della GGJ organizzato dall’associazione Game Art Dev di Bari. Non avevo abilità tecniche da offrire, forse solo la mia mia creatività e la passione per la traduzione, magari per creare un gioco sia in inglese e che in italiano. Ma temevo che mi sarei sentita un pesce fuor d’acqua e dicevo ai miei amici: “vado a vedere cos’è sta Jam, ma poi torno a casa”. Little did I know….

La GGJ si è tenuta dalle 19 di venerdì alle 17 di domenica: più o meno 48 ore per creare un gioco che funzioni. Vi sembra poco tempo? Beh, lo è. C’è chi sceglie di rinunciare al sonno per portare a termine il lavoro, chi invece decide di volare basso con un’idea semplice, cercando di conquistare quelle 5 ore di riposo a notte. L’importante è incontrarsi in una delle sedi, fare team, creare e divertirsi.

Il tema della Jam di quest’anno era “RADICI”, e ognuno era libero di interpretarlo in qualsiasi senso volesse, o anche di fregarsene e creare qualcos’altro. Gli organizzatori di Bari sono stati molto disponibili, trasmettendo la voglia di essere lì a godersi l’esperienza (senza pagare o vincere nulla) e offrendo pranzi a base di focaccia e mortadella, alla barese maniera. Al blocchi di partenza, dunque.

La prima fase della Jam è quella della formazione dei team. Alcune persone si conoscevano già, ma molti altri erano lì tanto sperduti quanto me. Appena è stato dato il via, mi sono voltata verso i miei vicini e in un istinto di sopravvivenza ho detto: vi va di lavorare insieme? In pochi minuti abbiamo creato un team con 3 sviluppatori, 3 modellatori 3D, 1 musicista e me, una linguista. Gli ingredienti c’erano tutti.

Giorno 1: brainstorming. Cosa vi fa venire in mente la parola “radici”? Ognuno aveva un’idea diversa: le radici degli alberi, quelle da mangiare come le carote, oppure quelle culturali. Da un’idea ne nasceva un’altra, andavano a mergersi e a migliorarsi, finché non siamo giunti a una conclusione. Forse era la fame (nel frattempo era arrivata l’ora di cena), ma abbiamo scelto di parlare delle radici culturali attraverso il cibo, inserendo nel nostro gioco tutti quei cibi che appaiono strani e insensati (come la pizza con l’ananas), ma che invece hanno una precisa ragione. Ragioni stravaganti, spesso politiche. Le origini dei cibi ci avrebbero condotto alle radici dei popoli.

Giorno 2: sveglia presto e alle 9 eravamo già operativi. Con l’idea chiara in mente, dovevamo pensare a come realizzarla. Quale sarebbe stata la dinamica di gioco? Un platform? Una visual novel? Che stile avrebbe avuto la grafica? Quanti tasti sullo schermo? Quali parole usare per raccontare la storia di questi cibi?
Tutti hanno lavorato intensamente e a me pare ancora una magia vedere sullo schermo dei modelli 3D a forma di kebab realistico. Oppure, pensare che (moltissime) linee di codice alfanumerico possano trasformarsi in immagini e parole sensate. Meglio lasciare i segreti agli esperti, io mi godo l’effetto stupore.

Io mi sono occupata di fare ricerche e scrivere le descrizioni dei cibi in inglese e italiano. La fase di ricerca è stata molto interessante e delicata: certo, era “solo” un gioco, ma non potevamo rischiare di diffondere false informazioni. Inoltre, come abbiamo presto imparato, tutte queste ricette “strane” che stavamo raccogliendo erano strane per una ragione: derivavano dall’incontro di più popoli, di solito per immigrazione e colonizzazione… dunque il fact checking doveva essere quanto più accurato possibile.

Giorno 3: eravamo avanti sulla tabella di marcia. Tutti i testi erano scritti e tradotti, tutti i disegni consegnati. Il codice, quasi completo. Stavamo cantando vittoria… ma forse era troppo presto. Quando abbiamo iniziato a unire i lavori di tutti in un unico grande progetto, ci siamo resi conto di quanto fossero vicine le 17, orario in cui tutti i giochi dovevano essere caricati sul sito della GGJ. La stanchezza e le ore passate davanti allo schermo iniziavano a farsi sentire e tutto l’hype che avevo provato fino a quel momento è iniziato a calare quando abbiamo riscontrato problemi tecnici. Il bello della diretta, e in generale della programmazione a quanto pare.

Tranquilli, questa è una storia a lieto fine: i programmatori sono riusciti a scovare i maledettissimi bug e far funzionare tutto, la Jam era salva! Alla Jam di Bari sono stati creati ben 5 giochi, 5 idee diverse per trama e stile. Pensate dunque a quanti nuovi piccoli giochi esistono nel mondo oggi rispetto a 3 giorni fa. Impressionante, vero?

Tempo di svelare il nostro gioco!

La cultura affonda le proprie radici nel cibo… ma vi siete mai chiesti le origini delle diverse ricette

Si chiama “Foods & Roots” ed è un drag-and-drop. Il giocatore vedrà di volta in volta l’immagine di una pietanza con il nome e dovrà posizionarla correttamente sul globo terrestre. Venti ricette, cinque tentativi ciascuna e un sistema di indirizzamento: se si clicca sul Paese sbagliato, si leverà un vento che punterà nella direzione giusta, la cui intensità debole-media-forte indicherà quanto lontano è l’obiettivo. Pensate sia facile? Allora non avrete problemi nell’indicare il Paese di origine della pizza con l’ananas…

Il gioco è disponibile sulla pagina ufficiale della Global Game Jam e scaricabile su PC. Ѐ un gioco molto interessante (sono di parte, eh), perfetto da giocare sia da soli che con gli amici per cercare di azzeccarne il più possibile. Mi farebbe molto molto piacere leggere un vostro parere qui nei commenti. L’impegno è stato tanto, il tempo limitato, il risultato sicuramente imperfetto, ma noi siamo molto fieri del risultato!

Tre giorni fa nulla di tutto questo esisteva. Non esisteva neanche che io mi iscrivessi da sola ad un evento nel quale c’entravo molto poco… e sono contenta di averlo fatto. Ho assistito alla creazione di qualcosa di cui sono parte anche io. Senza di me, e senza ognuno degli altri membri del team, sarebbe uscito un gioco diverso: questo determinismo lo rende ancora più speciale.

Sarà scontato da dire, ma maybe the real treasure is the friends we made along the way. Abbiamo lavorato a stretto contatto per ore e ore, tutti concentrati su un obiettivo comune. Dall’essere sconosciuti al prendere confidenza, mangiare insieme pranzo e cena e scoprire interessi in comune, dare e ricevere consigli di lavoro e di vita. Ho conosciuto persone che sono davvero brave in quello che fanno e per tre giorni siamo diventati amici, poi il resto si vedrà (ora che ci penso, questa situazione mi fa venire in mente la trama del film Queen).

E’ un’esperienza che rifarei. Avrei sempre un po’ di paura? Sì, ma penso che mi convincerei di nuovo ad andarci. Chissà, magari anche partecipando a Jam in altre città d’Italia o d’Europa, le possibilità sono davvero tante. Buon gioco a tutti e spero che parteciperete alla prossima Jam, ovunque voi siate!

Crediti al team di “Foods & Roots” (chissà se incontreranno mai questo articolo sull’Internet): Alberto Putignano, Alessia Schiavone, Federica Asia Zambetta, Lucia Patrono, Stefano Romanelli, Stefano De Robertis, Stefano Sanitate, Riccardo Reina

Alessia

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La tranquillità del ciottolo

Una delle frasi meme che più mi fanno ridere, e che trovo particolarmente utilizzabile anche nella vita reale, è una citazione da Phineas e Ferb, che forse avrete già letto in giro e dice: if I had a nickel for every time [a thing happened], I’d have two nickels, which isn’t a lot, but it’s weird that it happened twice. Proprio in virtù di questa frase meme, mi sono convinta a scrivere l’articolo di oggi, perché per ben due volte mi sono ritrovata di fronte a una metafora che avesse a che fare con… i ciottoli.

Ma perché i ciottoli? Spesso ho trovato il ciottolo utilizzato come metafora per rappresentare uno stato di quiete e immobilità pacifica e, per quanto possa sembrare strano – addirittura un po’ da svitati – credo che di tanto in tanto faccia bene immedesimarsi in questo ciottolo ideale.

Faccio un passo indietro e vi do un po’ di contesto per questa riflessione. Da un anno pratico yoga quasi tutti i giorni. Mi alleno a casa e – lo ammetto con sincerità e con fierezza – di solito lo faccio in pigiama prima di andare a dormire. Lo yoga per me ha rappresentato la svolta nella mia attività fisica. Ho sempre voluto allenarmi, ma odiavo andare in palestra e anche gli allenamenti in casa con le serie di addominali e squat proprio non facevano al caso mio… non sono mai riuscita a superare la prima settimana.

Poi, ho scoperto lo yoga. L’ho scoperto in un momento in cui cercavo un modo – qualsiasi modo – per allentare il nodo che provavo in gola e in petto. Ho iniziato a seguire il canale Yoga With Adriene, che consiglio vivamente, qualunque sia il vostro livello di preparazione fisica. Ho imparato ad amare lo yoga e a divertirmi ogni volta che mi srotolavo il tappetino e avviavo la lezione.

Come dice sempre Adriene, the hardest part is showing up on the mat, la parte più difficile è proprio quella di prendere il tappetino, srotolarlo a terra e presentarsi a lezione. Penso spesso a questa frase, decontestualizzata. La parte più difficile nella vita è presentarsi ed essere presenti, che è anche la parte più importante… nelle nostra relazioni con noi stessi e con gli altri. Nessun gesto vale di più della presenza.

Fatto questo, seduti sul tappetino, lo yoga è lo sport più facile del mondo. E non perché sia facile a livello pratico, ma perché con gentilezza si adatta ai corpi di tutti. Lo yoga è una pratica gentile, fatta di introspezione e di respiri profondi, di momenti in cui ci si ripiega su se stessi e altri in cui si tira in alto la testa per guardare con l’occhio della mente qualcosa da raggiungere. Inoltre, una cosa bellissima che ho notato è che lo yoga non mi stanca, non mi fa faticare e per questo è possibile allenarsi anche mezzora ogni giorno e vedere i risultati.

Certo, ogni tanto un minimo ci si sente tirare e bruciare i muscoli, ma tutto in amicizia! Nonostante non faccia soffrire, vi posso garantire che lo yoga ha i suoi effetti: adesso ho dei bei bicipiti (e quando sono davanti allo specchio, mi diverto a flexarli ridendo come una scema), riesco a tenere i plank per molto più tempo e a toccare ben oltre la punta dei piedi. Dette così, sembrano cavolate, ma sono soddisfazioni e prima di ridere della mia scarsa flessibilità… provate voi a toccarvi la punta dei piedi e vediamo un po’!

Ci sono anche benefici per la mente e l’umore. Lo yoga pone molta enfasi sulla respirazione e così, quando mi rendo conto di star respirando in modo “superficiale” o di star trattenendo la tensione in qualche parte del corpo, mi prendo un attimo per fare dei respiri profondi. Non è magia, è solo maggior consapevolezza. Respirare più profondamente non cura l’ansia, ma aiuta a sopportarla. Lo yoga aiuta a guardare la situazione dall’esterno e prendere tempo: molte volte quando ero turbata ho scelto di smettere per un attimo di pensare e di fare una sessione di yoga per concentrarmi sugli esercizi e sulla respirazione e mettere un po’ di distanza tra me e quella preoccupazione.

Infine, lo yoga mi fa sorridere. La parte migliore è la fine dell’allenamento, che si solito finisce distesi a pancia in su. Allora, prende il sopravvento una parte infantile di me (anzi, forse una parte che nemmeno da bambina facevo uscire, visto che avevo paura anche di fare le capriole), e inizio a rotolarmi all’indietro o a provare qualche posizione particolare che ancora non mi riesce, prima di ribaltarmi malamente per terra. E mi viene da ridere, da sola nella mia stanza, mi sento felice di usare il mio corpo in questo modo.

Ma tutto questo… cosa c’entra con i ciottoli? Una delle posizioni che non mi aveva mai ispirato era la posizione del fanciullo o balasana. Ci sono diverse varianti di questa posizione e quella che preferisco è la versione estesa, con le braccia in avanti (figura 1), mentre quella che non mi piaceva era la posizione del fanciullo tradizionale, con le braccia tirate indietro (figura 2).

La posizione tradizionale, a destra, non mi piaceva finché, durante una lezione Adriene (la ragazza dei video di cui parlavo prima) non ha fatto un paragone proprio con un ciottolo. Disse qualcosa di simile: immaginate di essere un ciottolo sulla riva di un lago e di sentire le onde leggere che accarezzano il vostro corpo seguendo il ritmo del respiro. Al sentire queste parole, ho immaginato la scena e per la prima volta ho visto un senso in questa posizione, che fino a quel momento non mi aveva trasmesso nulla.

L’idea di essere un ciottolo che se ne sta semplicemente lì, immobile. Rimanere così per una manciata di secondi, con la testa china sul tappetino e il rumore del proprio respiro che si risuona nello spazio tra il volto e il petto. Le braccia lungo i fianchi, tirate indietro, quasi a volersi arrotondare nella forma di un ciottolo. Con l’occhio della mente, immagiamo di essere un ciottolo senza pretese, senza scadenze, senza aspettative.
Può sembrare deprimente, ma in realtà è un pensiero che dona tranquillità. Certo, la vita deve andare avanti, ma per un attimo ci si può rivolgere dentro se stessi (letteralmente a livello fisico) e ascoltare il silenzio attorno, percepire il tempo che passa e capire che non accade nulla di spaventoso se ci fermiamo per un po’, al contrario di quanto crediamo di solito, tutti presi dal fare. Che non stiamo rimanendo indietro da nulla, che siamo lì dove dobbiamo essere in quel momento.

La seconda volta che ho incontrato una metafora sui ciottoli è stato per lavoro. Infatti, ho collaborato alla traduzione italiana di un videogioco che si chiama Froggy Pot (e se siete arrivati a leggere fin qui, credo che quel gioco faccia al caso vostro). La protagonista di questo gioco è Froggy, una ragazza vestita da ranocchia, che si trova a mollo in una pentola che pian piano inizia a bollire. Chiara ispirazione è la cosiddetta “sindrome della rana bollita”, descritta da Peter Senge:

Se mettiamo una rana in acqua a temperatura ambiente rimarrà calma. Quando la temperatura sale da 21 a 26 gradi Celsius, la rana non fa nulla e sembra persino divertirsi nell’acqua. Con l’aumentare della temperatura, la rana è sempre più stordita e alla fine non riesce più ad uscire dalla pentola. Anche se nulla lo impedisce, la rana resterà lì e morirà bollita.

Questo gioco racconta le paure di Froggy nel sentirsi inadeguata, la difficoltà nel reagire dopo la morte di una persona cara, così come la felicità che ci possono dare le piccole cose. I pensieri negativi, come acqua che bolle lentamente, paralizzano Froggy. Il giocatore, che ha la possibilità di guardare con occhio critico questa situazione dall’esterno, può aiutare Froggy a capire che non tutto è perduto e che può ancora uscire dalla pentola e vivere, un giorno alla volta, senza paragoni o pretese.

E a un certo punto, il gioco dice così:

La prima volta che incontrai queste frasi, mi parve bizzarro. Ecco il mio secondo nichelino, che non è molto, ma è strano che sia capitato due volte, no? Ci deve essere qualcosa in questo famoso ciottolo che ispira serenità. Anche la parola stessa… ciottolo… quanto è bella, una parola da abbracciare.

Ogni tanto, quindi, penso ai ciottoli sulla riva di un lago o di una spiaggia e l’immagine mi trasmette calma. Spero che anche per voi sia così. Spero di aver condiviso con voi questa prospettiva curiosa che già altre persone avevano percepito e trasmesso, ognuno attraverso i propri mezzi, come una lezione di yoga o un videogioco. Il mondo è davvero piccolo e a volte percepiamo le stesse cose, anche se siamo persone diverse in luoghi diversi.

Vi invito a dare una chance allo yoga, come sport, come passatempo, come antistress: può essere qualsiasi cosa vi serva, ma sono sicura che aggiungerà qualcosa di valore alle vostre giornate. E vi consiglio anche di giocare a Froggy Pot accompagnati dalla traduzione italiana del mio team di lavoro :D

Alessia

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Lavoro e performance

Mi ritrovo a fissare lo schermo bianco e il cursore che pulsa, alla ricerca delle parole giuste per descrivermi. Devo fare una buona impressione se voglio che mi notino, soprattutto dal momento che non ho molta esperienza lavorativa. Allora devo spingere al massimo le mie doti retoriche, esaltare le mie capacità di enterpreneurship, la mia attitudine verso il team work.

Questo è quello che viene spesso ridicolizzato come “gergo di Linkedin”, dove il lavoro di cameriere è probabilmente descritto come “responsabile della food security and safety in un family business“. (Rispetto per i camerieri, il punto di questo articolo è chiaramente un altro). E non fraintendetemi, sarebbe più o meno tutto vero e ci si potrebbe anche immedesimare, se solo la cosa non fosse raccontata in modo tanto pretenzioso. Ma il nocciolo è questa necessità di trasformare qualsiasi cosa in un atto performativo e faccio riferimento soprattutto a Linkedin. La colpa, ovviamente, non è di chi scrive in questo modo, perché è ormai un circolo vizioso: tutto deve apparire professionale e professionalizzante, e se non partecipi al gioco – perché è essenzialmente un gioco di retorica – sei un po’ un reietto: l’animatore del camposcuola tra i team-building manager – e così via, potremmo fare un gioco a trovare sinonimi trendy per tutti i lavori.

Ora, qualcuno potrebbe giustamente dire: se non ti piacciono, non leggere quei post. Al che risponderei: purtroppo nel mondo di Linkedin, e nel più generale mercato del lavoro, sono costretta a navigarci e la realtà è che – facendo riferimento al mio settore, ovvero la traduzione – dire “ho accompagnato gli zii dell’America a vedere le chiesette del mio paese” è ben diverso dal dire “organizzo tour in lingua inglese per appassionati di arte romanica pugliese“. Per non rischiare di essere esclusa dalla corsa al lavoro, anche io devo abbellire il mio CV, le mie esperienze, e la cosa peggiore è quando non hai ancora esperienze, perché devi abbellire anche quel vuoto.

Così, manca poco alla laurea magistrale e mi trovo in questa finestra temporale in cui il pensiero di non avere un lavoro – qualsiasi lavoro – viene alleviato solo in parte dalla giustificazione del “per ora sto pensando alla laurea”.

Dunque, nell’attesa di trovare proposte interessanti, o che qualcuno risponda alle mie candidature, ho iniziato a sistemare profilo Linkedin e CV, che comunque serve sempre. (Sto usando Canva, per chi fosse interessato, ed è magnifico se vi piace allineare tutto con grande soddisfazione). Modifico il CV, impagino in modo aesthetically pleasing e onestamente sono molto soddisfatta: a giudicare dalle mie doti grafiche, mi assumerei. Poi passo al profilo Linkedin, che ammetto di non curare molto, per i motivi di cui sopra: post pretenziosi e un leggero senso di depressione quando vedo che tutti trovano lavoro tranne me. (Sono autorizzata a una punta di autocommiserazione se vi ricordo che ho 23 anni e sono autoironica?). Ma comunque ha anche i suoi pregi.

Sistemata la mia “vetrina”, resta ancora un problema: io su Linkedin di post non ne scrivo e non ne commento. Come diremmo noi giovani “non ho sbatti”: vorrei trovare lavoro, e non scrivere di voler trovare lavoro, se ha senso il ragionamento. Invece, sembra che sia assolutamente necessario farlo, far sentire la propria voce, come se tutti dovessero avere un blog per dire cose intelligenti. Personalmente, la trovo una cosa estenuante: è diventato un social network, nel senso negativo del termine, al livello di Facebook e Instagram, ma per workaholics. Tuttavia, quando questa mania di abbellimento tocca ambiti più seri come il lavoro, non mi piace più così tanto. Suppongo che, se si chiama “mercato del lavoro”, un motivo ci sarà: ci mettiamo tutti in vendita e alla fine diventa un po’ una fiera, a chi strilla più forte, a chi ha il baracchino più colorato. Non tutti sanno fare i venditori in fiera, però, non tutti vogliono farlo, eppure dobbiamo, altrimenti saremo fuori dalla festa.

Non voglio fare della mia ricerca di lavoro-assunzione-promozione-licenziamento una performance. Non voglio dover curare nei minimi dettagli la grafica del mio CV e abbellirlo con iperboli per avere più probabilità di essere scelta. Non voglio mostrare la mia “mercanzia”. Vorrei poter dire: ecco quello che so fare, ecco quello che vorrei fare, spero mi considererete. Certo, il modo in cui si dicono le cose è importante, non stiamo mica parlando di essere sbrigativi o sciatti, bensì di non dover essere necessariamente performativi – così come ci si presenta ad un colloquio di lavoro vestiti in maniera adeguata per l’occasione, senza essere giudicati più o meno meritevoli per il suddetto abito.

La conclusione è che… non posso farci nulla, devo usare le mie doti retoriche anche se non è nelle mie corde e chissà, posterò la foto della mia laurea ringraziando l’università con parole commosse come fanno in molti. Però dentro di me, al momento, penso: vorrei che siano i miei diplomi a farmi trovare lavoro, le competenze che ho e quelle che cerco di colmare con il desiderio di imparare. Trovare lavoro non dovrebbe essere determinato dalla bellezza di un CV o di un profilo Linkedin.

Alessia

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Siamo tutti un po’ gatti di Schrodinger

Guardando i telegiornali, assistiamo fin troppe volte a interviste del genere:

Giornalista: «Lei conosceva l’assassino?»
Vicino di casa: «Mha, ogni tanto ci salutavamo, però… Era una brava persona, nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a tanto.»

Perché biasimiamo l’umanità intera eppure continuiamo a stupirci quando la polizia fa irruzione nella casa accanto alla nostra? Perché è così difficile prevedere la natura umana?

Il problema è che molto spesso ciò che sembra non è mai ciò che è. E non perché la nostra idea delle persone sia sbagliata (o almeno non sempre), ma perché non potremo mai conoscere interamente nessuno: non importa se si è amici da una vita o anime gemelle, il cervello dell’altra persona sarà sempre un mistero.
Certamente più la relazione è approfondita e intima, più il mistero si assottiglia, ma ognuno di noi ha dei pensieri psicopatici che non confesserà mai a nessuno (quel coltello sembra particolarmente affilato… sicuramente potrei uccidere qualcuno… intendo POTREI, non sono un’assassina ah ah ehm).

Gli uomini, per natura, sono un mistero – sono dei gatti di Schrodinger.

Buoni e cattivi, giusti e ingiusti allo stesso tempo: il loro essere non è decifrabile dalle semplici azioni abitudinarie. Solo con un avvenimento chiave, solo aprendo la scatola, si può capire veramente con chi si ha a che fare.

Molte persone non conosceranno mai la loro vera natura perché non incroceranno mai il proprio avvenimento chiave e trascorreranno la vita a considerarsi buoni e giusti. Altri, invece, rimarranno sconvolti dalle loro stesse azioni, mentre i vicini di casa commenteranno sottovoce: «Non ce lo saremmo aspettati… Era sempre buono con la moglie e i figli.»

Ecco, la scatola è stata aperta e così come il gatto che sembrava vivo in realtà era morto, anche quell’uomo tanto gentile si è rivelato un potenziale assassino.

Ci sono moltissime questioni da porsi in proposito, domande impertinenti e degne di una sbronza (mangeresti mai un’altra persona se fosse l’unico modo per sopravvivere?) la cui risposta adesso, da sobri, è NO e assolutamente NO. Però nello stesso tempo penso: ne siamo davvero sicuri?

Il nostro futuro è come un film: quando lo immaginiamo siamo sempre gli eroi e anche quando commettiamo degli errori, sappiamo sempre porvi rimedio. Quindi potremmo pensare che di fronte a una situazione disperata sapremmo come reagire, perché l’abbiamo già immaginato.
Ma nella realtà, quanti di noi riuscirebbero a mantenere il sangue freddo e a non agire con imprudenza? Quanti si pentiranno di ciò che hanno fatto?

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You’ll think how’d get here sitting next to you? (Heathens – Twenty One Pilots)

Alessia xx
(che per adesso NON è una cannibale)

escatologico: che riguarda il destino dell’uomo e dell’universo

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Caterina e la nuvola d’oro: una vita a rovescio

Ho conosciuto Simona Baldelli alla presentazione del suo nuovo libro: dopo tanti anni a calcare il palcoscenico, ha una strana difficoltà nel definirsi scrittrice, nonostante La vita a rovescio non sia il suo primo romanzo.

«La storia di questo libro nasce grazie a una sbronza»

Un’amica le aveva regalato un libro dalla copertina arancione – no, rossa, ma chissà perché la sua mente continua a ricordarla arancione. Si trattava di un saggio storico, non esattamente il suo genere preferito, ma per non fare un torto a nessuno aveva nascosto il libro in valigia, senza nemmeno darvi un’occhiata.

Dopo le birre strappate all’unico locale ancora aperto a quell’ora di notte e con troppo poco sonno in corpo, il giorno dopo vagava per le sale conferenze del Salone Internazionale del Libro, alla ricerca di un angolino in cui riposarsi. Seduta in fondo a una sala semivuota, il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu: «Sicuramente stanno presentando un saggio storico».

«Un poco alla volta mi sono svegliata e ho iniziato a sentire dei suoni. Poi quei suoni si sono trasformati in parole e quelle parole in frasi. E quelle frasi in una storia bellissima. Stavano presentano quel mio libro con la copertina arancione»

cover.jpgCon il viso deturpato dal vaiolo, Caterina Vizzani vive a Roma. Tiene i conti per la falegnameria del padre ed è più sveglia di molti maschi che comandano il suo piccolo mondo. Nella scuola di cucito che è costretta a frequentare, Caterina conosce Margherita dai capelli d’oro.

Margherita che non ha paura della cicatrice sul suo viso – anzi, quando sono insieme è Caterina a dimenticarsi di essere tanto imperfetta. Margherita che ogni sera le racconta dell’amore tra Bradamante e Fiordispina come fosse un loro segreto, e forse c’è davvero qualcosa da tener nascosto: natura, no – stregoneria.

Qualsiasi sia quel nome tanto sospirato dalle due amanti, troppo grave è la colpa di Caterina, che è costretta a fuggire da Roma. Un’infestazione di cimici le farà scoprire Giovanni Bordoni. Grazie a lui, Caterina deciderà di mandare all’aria quel copione striminzito impartitole per nascita e nel suo nuovo costume, comincia a sentirsi padrone della scena, padrone del mondo.

Perché adesso che è un maschio, la sua cicatrice vaiolata non spaventa più le donne, ma le seduce, e l’ambizione all’indipendenza tanto condannata in Caterina, per Giovanni diventa sinonimo di grandezza d’animo. Il suo più grande desiderio è diventare un cavaliere come Bradamante, ma la brama di un potere negato alle donne spesso allontanerà Giovanni dal fare la scelta giusta, dal creare il suo regno a rovescio.

Quando mi è stato proposto questo libro sono stata molto felice di dargli un’occasione: personalmente non avevo mai letto un autore italiano parlare dell’identità sessuale e in generale è un tema su cui mi piace discutere.

cover.jpgInoltre, la caratteristica di questo romanzo è che nonostante la questione affrontata ovviamente influisca sulle scelte di Caterina, la storia non ne viene monopolizzata. Non ci sono capitoli eterni sull’educazione sessuale o manifesti per la parità dei diritti: è la storia di una ragazza vera che vuole essere libera, anche se per farlo deve indossare un costume, e anche se questo può sembrare una contraddizione.

Proprio il fatto che sia una storia vera in alcuni casi potrà farvi arrabbiare: a tratti Caterina mi era sembrata egoista e maschilista. Non riuscivo ad accettare come proprio lei, avendo una possibilità di riscatto, potesse preferire i privilegi maschili della vita sessuale e lavorativa! Avrebbe potuto ribaltare il mondo, invece si era limitata a scalarlo.

Questo perché siamo abituati personaggi realistici, ma inventati – personaggi che possono farsi carico di essere paladini della giustizia senza in realtà perdere nulla, perché la loro vita nasce direttamente dalla tastiera dello scrittore. Nella vita vera, invece, pur avendo idee di giustizia e di parità, il primo istinto è sempre quello di proteggersi.

Consiglio La vita a rovescio di Simona Baldelli a chi ama le vite avventurose e turbolente, a chi non può credere che tutto ciò sia realmente accaduto e a chi – invece – ha sempre creduto che la letteratura e la poesia siano roba da pazzi.

Alessia xx
(Simona Baldelli è pubblicata da Giunti Editore: trovate qui tutti i suoi libri
La vita a rovescio è stato nominato libro del mese per Fahrenheit-Radio Tre)

picacismo: disturbo dell’alimentazione caratterizzato dall’ingestione prolungata di sostanze non nutritive (carta, legno…)

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A contestare Piero Angela

«L’omosessualità non è una malattia […] ma la malattia è l’omofobia, e alla base di questo ci sono le stesse molle che aizzavano i nazisti»

Non credo  (non posso credere) che l’omofobia sia una malattia, perché questa definizione la giustificherebbe. La mia solita vena critica è impaziente: lasciatemi spiegare!

Se l’omofobia fosse una malattia, potremmo giustamente paragonarla ad altre fobie, come l’idrofobia, l’acluofobia, l’ofidiofobia – che sono tutte valide e hanno ragioni per esistere: senza saper nuotare si può affogare, nel buio può nascondersi un pazzo maniaco e anche un serpente velenoso può uccidere.

Al contrario l’omofobia non è una fobia: gli omosessuali non sono più criminali o più indecenti degli etero, non sono velenosi e non mordonoSarebbe quasi più sensato parlare della generica paura delle persone: un’esasperazione, certo, ma guardando in faccia la realtà, non mi sembra una cosa tanto ingiustificata.

L’omosessualità non è una malattia contagiosa da scansare: ho paura dell’ebola, perché ha ucciso e continua a farlo. Essere gay non ha mai ucciso nessuno – ah, no, scusate.

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«Alla base di tutto c’è sempre un problema culturale […] per questo la migliore prevenzione ha un solo nome: educazione» e un po’ salvano la discussione.

Mi piacciono le parole, soprattutto quelle giuste e ho capito quello che intendeva fare il professor Jannini: una frase ad effetto proprio niente male. Nella mia mente, gli ho anche dato una pacca sulla spalla, ma bisogna stare attenti alle definizioni: se l’omofobia fosse realmente una malattia, quante violenze sarebbero tecnicamente scusate davanti alla legge?

In un processo, ci si potrebbe appellare allo stato di infermità mentale, ottenendo delle attenuanti – in verità dando una giustificazione all’intolleranza e al pregiudizio.

La mia immaginazione corre troppo? Spero di sì e spero perdonerete questo mio discorso esasperato. A proposito di fobie, avete mai sentito parlare di eterofobia?

Alessia xx

acluofobia: paura dell’oscurità e del buio

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Friendly reminder: stay decent

Una donna è appena entrata nella nostra classe. Suppongo sia la nostra prof, ma l’aula non si direbbe il suo habitat naturale, piuttosto la potresti incontrare seduta su una rampa da skateboard, a discutere di filosofia. Probabilmente le sorriderei – come faccio adesso, anche se un po’ sorpresa – perché tutto – dai suoi capelli asimmetrici alle grandi ali tatuate dietro la schiena – mi ispira fiducia e non saprei dire nemmeno perché.

«Cerchiamo di essere persone decenti»

Queste sono state le prime parole di Beth.
Le più belle parole dette da una persona vera, e non dall’eroe di un libro o da una canzone hippie. Beth parla, seduta sulla cattedra, di inclusione e di rispetto.

«Qualsiasi sia la persona in cui l’altro si identifica, noi abbiamo il dovere di rispettarla»

Una filosofia tanto semplice che verrebbe da pensare che non sia poi una così grande rivelazione: ha scoperto l’acqua calda.

Non si parla mai di quanto sia importante il rispetto, mai una volta in ambito quotidiano o almeno – mai abbastanza: forse perché abbiamo mille altre preoccupazioni e poco tempo per pensarci o forse perché ci sembra così scontato che non ha senso preoccuparsene.
La tua libertà finisce dove inizia la mia. Questo lo sanno tutti e tutti sanno come comportarsi.

A volte, però abbiamo bisogno di sentircelo dire. Come un figlio che si sente dire «Copriti bene!» anche se ha vent’anni e sicuramente sa come abbottonare un cappotto.
«Mamma, per favore» si lamenterà esasperato, controllando un’ultima volta i bottoni – solo per sicurezza.

La stesso vale per Beth: non ci ha insegnato il rispetto, ce l’ha ricordato.
Ho davvero apprezzato le sue parole, così tanto che mentre l’ascoltavo mi veniva da piangere. In quel momento ho realizzato da quanto tempo stessi aspettando qualcuno che mi parlasse di questo. Che ne parlasse seriamente, ma non come fosse un dovere, piuttosto come una dimostrazione di affetto.

Cerchiamo di essere persone decenti.tumblr_nxm1caJy8l1tq2ksdo1_540

Alessia xx

rodomontata: prepotenza, bravata (da un personaggio dell’Orlando Innamorato)

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Eterofobia: una spiegazione

Tralasciando l’identità religiosa dell’assassino del Pulse di Orlando, è comunque impossibile negare che dietro le sue azioni ci sia stata una convinta omofobia.

Cosa è l’omofobia? Più che di paura, si tratta dell’avversione nei confronti di omosessuali, bisessuali e transessuali, ovvero di chiunque non sia attratto (esclusivamente o biologicamente) dal sesso opposto.

In ogni caso, è una verità socialmente accettata che la comunità lgbt+ non sia più indecente o più criminale di quanto lo siano gli eterosessuali.

L’omofobia è quindi una discriminazione, dettata dai pregiudizi e dall’eteronormatività.

Cosa è l’eteronormatività? La credenza che esistano solo due generi (maschile e femminile) e che l’unico orientamento sessuale possibile sia l’eterosessualità.

Alla luce dei fatti di Orlando mi sono chiesta se non fosse più logico parlare di eterofobiadato che è la comunità lgbt+ a vedersi negare alcuni diritti e ad essere attaccata con le parole e con le azioni.

A quanto pare, la parola eterofobia esiste – non ufficialmente e non sui dizionari – ma il significato che le è stato attribuito non mi ha totalmente convinto.

Sul piano etimologico indica la paura di chi è diverso, ma questo concetto è già espresso dalla xenofobia, la paura dello straniero, di colui che ha una cultura e uno stile di vita diverso dal nostro.

Si potrebbe considerare l’eterofobia come l’opposto dell’omofobia, quindi come l’avversione nei confronti degli eterosessuali in quanto tali, ma ciò porterebbe ancora una volta a una discriminazione, piuttosto che a una vera e propria paura.

Cosa è l’eterofobia? E’ la paura degli eteronormativi, ovvero di coloro che non concepiscono e non tollerano le diverse identità sessuali e di genere, ed esprimono tale intolleranza con violenza verbale e fisica.

L’eterofobia è un’invenzione?

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Dopo la strage di Orlando di certo non saranno gli etero ad aver paura di essere fucilati a tradimento durante una festa.

Alessia xx
(trovate qui una definizione più specifica dell’eterofobia secondo il mio parere)

mahrokh: (persiano) letteralmente “viso di luna”, un complimento usato principalmente per le donne, dove la luna rappresenta il più alto livello di bellezza

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La complicata vita degli etero

tumblr_nhcmtjEgyk1s3dngxo3_1280L’amicizia tra uomo e donna ha tutte le possibilità di esistere. C’è un unico problema: non è quello a cui siamo socialmente abituati. Non fraintendetemi, questo tipo di amicizia esiste eccome, ma è molto spesso accompagnata da un’aura di malizia tutt’altro che involontaria.

Non importa quale sia il vostro genere, basta che portiate con voi un rappresentante del sesso opposto e in men che non si dica vostra madre, un parente qualsiasi, anche il tizio che abita sotto di voi di cui non sapete nemmeno il nome, penserà che si tratti della vostra Anima Gemella.

Se le allusioni possono in alcuni casi essere lusinghiere, in altre situazioni sono profondamente snervanti perché per l’amor del cielo, lasciatemi vivere una semplice amicizia senza farvi film mentali! Dopo un po’ di tempo – dopo che vi avranno estratto a forza la cronistoria del vostro fantomatico partner – lasceranno perdere, ma credete che in questo modo abbiano imparato?

Il problema sta nel fatto che la società non è abituata a svincolare l’abbinamento uomo/donna dall’attrazione sessuale, perché evidentemente un individuo x, dotato di gameti femminili, non può che essere attratto dall’individuo y che le sta di fronte, dotato di gameti maschili.

In fondo al pontile si trovava la guida che li avrebbe condotti al rifugio segreto.
«Assomigli sempre più a tuo padre» ridacchiò quello, aprendo le braccia. Poi adocchiò la sconosciuta oltre le sue spalle «Non sapevo avessi già preso moglie!»
«Moglie? Ah, niente affatto» ribatté lei «noi siamo … »
«Amici»
«Compagni»
«Diciamo conoscenti»
«Giusto»

(esempio di un dialogo molto comune nelle storie alla “odi et amo”. nonostante vada matta per queste storie, non si può negare quanto sia evidente la conclusione per i due personaggi, sin da queste poche battute)

Se a impedire l’amicizia tra uomo e donna è la semplice attrazione fisica, come la mettiamo con chiunque non sia eterosessuale? Tanto per fare un esempio, i bisessuali: mai incontrate persone con così pochi amici!

Anche tra gay e tra lesbiche c’è un’innegabile attrazione fisica, ma ciò non rende l’amicizia con lo stesso sesso meno valida agli occhi della società. Né a vostra madre, al parente qualsiasi, al tizio che abita sotto di voi di cui non sapete nemmeno il nome, passerà per la mente come prima ipotesi che abbiate una fantomatica relazione con quell’amico del vostro stesso genere che vi portate sempre dietro.

Le relazioni omosessuali valgono tanto quanto quelle eterosessuali. Di conseguenza, se le amicizie tra lo stesso sesso sono possibili, pur ammesso il “rischio” di un coinvolgimento amoroso, cosa c’è di diverso nelle amicizie tra generi opposti?

Bisogna normalizzare il concetto che l’attrazione amorosa e/o fisica non esiste solo nel binomio uomo/donna. A questo punto ci sono solo due possibilità: non stringere alcuna amicizia perché non importa il tuo orientamento, tu potresti innamorarti di me in qualsiasi momento. Oppure, capire che tra chiunque un’amicizia può nascere, cambiare o più semplicemente rimanere tale.

Alessia xx

panacea: rimedio portentoso