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La tranquillità del ciottolo

Una delle frasi meme che più mi fanno ridere, e che trovo particolarmente utilizzabile anche nella vita reale, è una citazione da Phineas e Ferb, che forse avrete già letto in giro e dice: if I had a nickel for every time [a thing happened], I’d have two nickels, which isn’t a lot, but it’s weird that it happened twice. Proprio in virtù di questa frase meme, mi sono convinta a scrivere l’articolo di oggi, perché per ben due volte mi sono ritrovata di fronte a una metafora che avesse a che fare con… i ciottoli.

Ma perché i ciottoli? Spesso ho trovato il ciottolo utilizzato come metafora per rappresentare uno stato di quiete e immobilità pacifica e, per quanto possa sembrare strano – addirittura un po’ da svitati – credo che di tanto in tanto faccia bene immedesimarsi in questo ciottolo ideale.

Faccio un passo indietro e vi do un po’ di contesto per questa riflessione. Da un anno pratico yoga quasi tutti i giorni. Mi alleno a casa e – lo ammetto con sincerità e con fierezza – di solito lo faccio in pigiama prima di andare a dormire. Lo yoga per me ha rappresentato la svolta nella mia attività fisica. Ho sempre voluto allenarmi, ma odiavo andare in palestra e anche gli allenamenti in casa con le serie di addominali e squat proprio non facevano al caso mio… non sono mai riuscita a superare la prima settimana.

Poi, ho scoperto lo yoga. L’ho scoperto in un momento in cui cercavo un modo – qualsiasi modo – per allentare il nodo che provavo in gola e in petto. Ho iniziato a seguire il canale Yoga With Adriene, che consiglio vivamente, qualunque sia il vostro livello di preparazione fisica. Ho imparato ad amare lo yoga e a divertirmi ogni volta che mi srotolavo il tappetino e avviavo la lezione.

Come dice sempre Adriene, the hardest part is showing up on the mat, la parte più difficile è proprio quella di prendere il tappetino, srotolarlo a terra e presentarsi a lezione. Penso spesso a questa frase, decontestualizzata. La parte più difficile nella vita è presentarsi ed essere presenti, che è anche la parte più importante… nelle nostra relazioni con noi stessi e con gli altri. Nessun gesto vale di più della presenza.

Fatto questo, seduti sul tappetino, lo yoga è lo sport più facile del mondo. E non perché sia facile a livello pratico, ma perché con gentilezza si adatta ai corpi di tutti. Lo yoga è una pratica gentile, fatta di introspezione e di respiri profondi, di momenti in cui ci si ripiega su se stessi e altri in cui si tira in alto la testa per guardare con l’occhio della mente qualcosa da raggiungere. Inoltre, una cosa bellissima che ho notato è che lo yoga non mi stanca, non mi fa faticare e per questo è possibile allenarsi anche mezzora ogni giorno e vedere i risultati.

Certo, ogni tanto un minimo ci si sente tirare e bruciare i muscoli, ma tutto in amicizia! Nonostante non faccia soffrire, vi posso garantire che lo yoga ha i suoi effetti: adesso ho dei bei bicipiti (e quando sono davanti allo specchio, mi diverto a flexarli ridendo come una scema), riesco a tenere i plank per molto più tempo e a toccare ben oltre la punta dei piedi. Dette così, sembrano cavolate, ma sono soddisfazioni e prima di ridere della mia scarsa flessibilità… provate voi a toccarvi la punta dei piedi e vediamo un po’!

Ci sono anche benefici per la mente e l’umore. Lo yoga pone molta enfasi sulla respirazione e così, quando mi rendo conto di star respirando in modo “superficiale” o di star trattenendo la tensione in qualche parte del corpo, mi prendo un attimo per fare dei respiri profondi. Non è magia, è solo maggior consapevolezza. Respirare più profondamente non cura l’ansia, ma aiuta a sopportarla. Lo yoga aiuta a guardare la situazione dall’esterno e prendere tempo: molte volte quando ero turbata ho scelto di smettere per un attimo di pensare e di fare una sessione di yoga per concentrarmi sugli esercizi e sulla respirazione e mettere un po’ di distanza tra me e quella preoccupazione.

Infine, lo yoga mi fa sorridere. La parte migliore è la fine dell’allenamento, che si solito finisce distesi a pancia in su. Allora, prende il sopravvento una parte infantile di me (anzi, forse una parte che nemmeno da bambina facevo uscire, visto che avevo paura anche di fare le capriole), e inizio a rotolarmi all’indietro o a provare qualche posizione particolare che ancora non mi riesce, prima di ribaltarmi malamente per terra. E mi viene da ridere, da sola nella mia stanza, mi sento felice di usare il mio corpo in questo modo.

Ma tutto questo… cosa c’entra con i ciottoli? Una delle posizioni che non mi aveva mai ispirato era la posizione del fanciullo o balasana. Ci sono diverse varianti di questa posizione e quella che preferisco è la versione estesa, con le braccia in avanti (figura 1), mentre quella che non mi piaceva era la posizione del fanciullo tradizionale, con le braccia tirate indietro (figura 2).

La posizione tradizionale, a destra, non mi piaceva finché, durante una lezione Adriene (la ragazza dei video di cui parlavo prima) non ha fatto un paragone proprio con un ciottolo. Disse qualcosa di simile: immaginate di essere un ciottolo sulla riva di un lago e di sentire le onde leggere che accarezzano il vostro corpo seguendo il ritmo del respiro. Al sentire queste parole, ho immaginato la scena e per la prima volta ho visto un senso in questa posizione, che fino a quel momento non mi aveva trasmesso nulla.

L’idea di essere un ciottolo che se ne sta semplicemente lì, immobile. Rimanere così per una manciata di secondi, con la testa china sul tappetino e il rumore del proprio respiro che si risuona nello spazio tra il volto e il petto. Le braccia lungo i fianchi, tirate indietro, quasi a volersi arrotondare nella forma di un ciottolo. Con l’occhio della mente, immagiamo di essere un ciottolo senza pretese, senza scadenze, senza aspettative.
Può sembrare deprimente, ma in realtà è un pensiero che dona tranquillità. Certo, la vita deve andare avanti, ma per un attimo ci si può rivolgere dentro se stessi (letteralmente a livello fisico) e ascoltare il silenzio attorno, percepire il tempo che passa e capire che non accade nulla di spaventoso se ci fermiamo per un po’, al contrario di quanto crediamo di solito, tutti presi dal fare. Che non stiamo rimanendo indietro da nulla, che siamo lì dove dobbiamo essere in quel momento.

La seconda volta che ho incontrato una metafora sui ciottoli è stato per lavoro. Infatti, ho collaborato alla traduzione italiana di un videogioco che si chiama Froggy Pot (e se siete arrivati a leggere fin qui, credo che quel gioco faccia al caso vostro). La protagonista di questo gioco è Froggy, una ragazza vestita da ranocchia, che si trova a mollo in una pentola che pian piano inizia a bollire. Chiara ispirazione è la cosiddetta “sindrome della rana bollita”, descritta da Peter Senge:

Se mettiamo una rana in acqua a temperatura ambiente rimarrà calma. Quando la temperatura sale da 21 a 26 gradi Celsius, la rana non fa nulla e sembra persino divertirsi nell’acqua. Con l’aumentare della temperatura, la rana è sempre più stordita e alla fine non riesce più ad uscire dalla pentola. Anche se nulla lo impedisce, la rana resterà lì e morirà bollita.

Questo gioco racconta le paure di Froggy nel sentirsi inadeguata, la difficoltà nel reagire dopo la morte di una persona cara, così come la felicità che ci possono dare le piccole cose. I pensieri negativi, come acqua che bolle lentamente, paralizzano Froggy. Il giocatore, che ha la possibilità di guardare con occhio critico questa situazione dall’esterno, può aiutare Froggy a capire che non tutto è perduto e che può ancora uscire dalla pentola e vivere, un giorno alla volta, senza paragoni o pretese.

E a un certo punto, il gioco dice così:

La prima volta che incontrai queste frasi, mi parve bizzarro. Ecco il mio secondo nichelino, che non è molto, ma è strano che sia capitato due volte, no? Ci deve essere qualcosa in questo famoso ciottolo che ispira serenità. Anche la parola stessa… ciottolo… quanto è bella, una parola da abbracciare.

Ogni tanto, quindi, penso ai ciottoli sulla riva di un lago o di una spiaggia e l’immagine mi trasmette calma. Spero che anche per voi sia così. Spero di aver condiviso con voi questa prospettiva curiosa che già altre persone avevano percepito e trasmesso, ognuno attraverso i propri mezzi, come una lezione di yoga o un videogioco. Il mondo è davvero piccolo e a volte percepiamo le stesse cose, anche se siamo persone diverse in luoghi diversi.

Vi invito a dare una chance allo yoga, come sport, come passatempo, come antistress: può essere qualsiasi cosa vi serva, ma sono sicura che aggiungerà qualcosa di valore alle vostre giornate. E vi consiglio anche di giocare a Froggy Pot accompagnati dalla traduzione italiana del mio team di lavoro :D

Alessia

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Consuetudini e gabbie mentali

Una settimana fa ho iniziato l’università e ho deciso di seguire le lezioni di diritto internazionale. Una delle prime nozioni che abbiamo appreso è che la prima fonte di norme è la consuetudine. Cos’è la consuetudine? È un comportamento che si ripete reiteratamente nel tempo, ritenendo che sia giusto e necessario.

È consuetudinaria anche la nostra vita: ci creiamo delle abitudini e dei modi di fare che permettono di distinguere tra situazioni che sono “da noi” e altre che non lo sono.

Le consuetudini non sono negative di per sè. Ci aiutano a orientarci nell’infinita possibilità di scelta (come ci insegna il vecchio Kierkegaard), ci aiutano a tracciare una linea di condotta. Di fronte a una situazione potremmo potenzialmente reagire in qualunque modo: decidiamo quindi di farlo nella maniera che ci fa sentire più a nostro agio, che diventa il nostro modo di essere.

Agli occhi degli altri, e soprattutto agli occhi di noi stessi, è così che nascono le etichette. Mi sono sentito sopraffatto da quella festa chiassosa? Devo essere un introverso. O invece mi sono sentito pieno di energie in mezzo a tutta quella gente? Allora sono un estroverso. Il problema delle etichette è che sono armi a doppio taglio: ovviamente ne abbiamo bisogno perchè altrimenti non avremmo una vaga idea di chi siamo, ma non dobbiamo farci ingabbiare. Nel 2018 è bell’è superata la dicotomia introversione/estroversione e sappiamo che è uno spettro fatto di eccezioni.

Sì, perché se da un lato è vero che noi umani abbiamo delle abitudini, dall’altro abbiamo anche il concetto dell’ “eccezione che conferma la regola”. Quindi, l’introverso di turno  avrà un momento di estrema estroversione quando scoprirà che il suo artista preferito farà tappa in Italia. E potete giurarci che non avrà più alcun timore a parlare con gli estranei pur di raggiungere il suo obiettivo. Non sarà un comportamento “da lui/lei”, ma a quanto pare è proprio l’eccezione che conferma la regola.

Le consuetudini però possono diventare obsolete, e noi dobbiamo fare qualcosa per accorgercene, altrimenti rischiamo di perdere tempo con cose che non ci interessano più. Oppure di scartare cose interessanti solo perché diamo per scontato che, non essendoci piaciute in passato, non possono piacerci adesso.tumblr_okt76thqgQ1vkadpmo1_500Alcune consuetudini sono più facili da infrangere. Altre, quelle che soprattutto hanno a che fare con i legami personali (e l’orgoglio) un po’ meno. Bisogna pensare alle abitudini come a delle gabbie: di alcune abbiamo lasciato la porta aperta e possiamo uscire dalla confort zone quando vogliamo. Di altre possediamo la chiave e se volessimo, potremmo cambiare abitudine (certo che ho della frutta in frigo, è che scelgo di non mangiare più sano).

Altre gabbie/abitudini, invece… Beh, funzionano come dice il nome stesso. Queste sono le vere stronze, le cattive abitudini in cui ci crogioliamo. Ma non è colpa nostra se lo facciamo: abbiamo le nostre ragioni, o le avevamo, in passato. Il problema è che ci siamo aggrappati ad esse, elevandole a nostro stendardo. Trasformandole in pilastri su cui costruiamo alcuni aspetti della nostra vita.

Un esempio di una gabbia/abitudine del genere è il rancore che possiamo serbare per anni. Quell’amico che non ci ha mai chiesto per primo di uscire (e quindi neanche io glielo chiederò più. Ci sto male, ma… non posso essere sempre io la scema, no?). Il genitore che non si è interessato di noi (e no, non mi importa che io non ho abbia chiesto della sua giornata. Il punto è che lui/lei non ha mai chiesto della mia).

È tutto molto illogico, visto dall’esterno, ma è umano. Se siamo arrabbiati, non possiamo controllarci, né essere giusti nei confronti degli altri. Altrimenti non saremmo arrabbiati.hhhCosì il rancore, l’ingiustizia, l’insoddisfazione che abbiamo provato una volta si trasformano in abitudini. E la verità è che siamo noi stessi a volerlo, più o meno consapevolmente. Speriamo che quell’amico declini il nostro invito a uscire solo perché così possiamo provare a noi stessi che “ecco, è lui l ingrato, io sto facendo la mia parte”. E per quanto vorremmo che il nostro genitore ci chieda di noi, rigettiamo l’idea di aprirci a loro perché “non funziona così tra noi”.

Questo tipo di gabbie, non possiamo aprirle da soli: abbiamo bisogno di un occhio esterno per distanziarci dalle abitudini che ci impediscono di fare, dire, reagire come ci pare adesso, e non in virtù del passato. (Al momento mi sento profonda attaccata da tutto ciò che io stessa sto scrivendo lol)

Dobbiamo resettare. Orribile, vero? Cambiare direzione per capire da dove soffia il vento. Per tutto questo tempo abbiamo creduto di sentire il vento in faccia, quando invece aveva cambiato direzione.

Non è una bella sensazione, cambiare la direzione che abbiamo seguito per tutto questo tempo. Anche quella è una comfort zone, per quando ci provochi sconforto per tutti i sentimenti negativi a cui si ispira.

Abbiamo bisogno che altri ci pongano le giuste domande, e quelle sfortunate persone saranno oggetto della nostra seccatura (ehi, ho detto che volevo un consiglio, ma era implicito il fatto che fossi d’accordo con me!).

 

Una volta in cui mi stavo lamentando di quanto mia madre fosse irragionevole nel continuare ad arrabbiarsi per mie mancanze del passato, un mio amico mi ha detto “ma… tu ti stai comportando allo stesso modo, non credi?”. E io sono rimasta lì, sentendomi un pochino tradita da quelle parole, perché non mi era stata data ragione. E come in un moment of consciousness ho pensato “o mio dio, è vero”. Dal mio amico volevo una risposta che fomentasse il mio rancore e che lo giustificasse come lo giustificavo io… invece ho trovato un grande segnale di alt.

Questo non significa che dal giorno successivo ho trovato una soluzione ai conflitti famigliari o che metterò una pietra sopra su tutto il passato. Ma quando il conflitto accade… si, va bene, magari ci ricasco. Devo ancora imparare. Ma la vedo. Adesso vedo quella stronza di abitudine, lì, piccolina nel suo angolino di cervello. È già un passo.

Breccia è stata fatta. La gabbia/abitudine è stata aperta, ma solo chi c’è dentro può decidere di uscire. Creeremo una nuova consuetudine con più eccezioni e più libertà, magari con l’orgoglio un po’ ferito.tumblr_ofrtic8GV81tsd4fto1_500

Cresciamo affettuosamente legati alle nostre abitudini, al punto da considerare quelle abitudini non-così-buone come giuste e familiari, trasformandole in pilastri per la nostra vita. Bene, adesso mettete alla prova a vostra casa, permettete  di indicarne le crepe (con rispetto, eh). La soluzione sarà lunga da trovare, ma per adesso non riuscirete a non-vedere le crepe e a non-considerare l’illogicità di alcuni modi di fare.

 

Alessia

 

 

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Clausole romantiche

Mi sono resa conto di non essere una grande amante delle cose permanenti — delle cose permanenti che hanno effetti sulla mia libertà. Ho già parlato di figli e di come bisognerebbe pensarci non due, ma svariate volte, prima di pentirsi di aver sacrificato la propria vita (perché è indubbiamente un sacrificio).

Adesso vorrei parlare di relazioni, in particolare quelle etero. Non che questo non possa accadere in altre, ma capirete anche voi che quello di cui parlerò è più comune nelle relazioni etero, o comunque ha più visibilità mediatica.

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Mi spaventa una relazione con un ragazzo — parlo di una relazione seria da “viviamo insieme e progettiamo il futuro”. Perché?

Perché ogni giorno sui giornali compaiono notizie di stalking, violenze, abusi, maschilismo. Il che significa che ogni giorno un ragazzo o uomo che sia decide di colpire e uccidere la donna con cui ha o ha avuto una relazione. Vi renderete conto che la probabilità non è così bassa e che forse c’è un po’ da preoccuparsi.

Poi penso alle mie future relazioni e la mia prima reazione è: non mi fido dei ragazzi e le relazioni etero sono pericolose. Una parte di me pensa che si tratti di un pregiudizio, perché i ragazzi che conosco sono tutte brave persone. D’altro canto, mi dico quasi tutti sono persone decenti a 18 anni. Poi le persone cambiano, al 50% in peggio. 

Ai ragazzi dico: mi dispiace.

Le azioni criminali di una parte di voi purtroppo vi coinvolge, il che è ingiusto tanto quanto considerare pericolosi tutti i dobermann del mondo, solo perché uno ha morso una persona. Tuttavia diventa istintivo allontanarsi da quella razza canina quando la incontro per strada. Diventa istintivo non fidarsi.

Alle ragazze dico: tutelatevi. 

Non mettete da parte il lavoro, non rinunciate a dei guadagni solo vostri. So che è brutto da dire ma precisate le clausole della relazione. Il vero amore non scapperà se gli insegnate a cucinare o a spolverare, e se lo facesse o se sentisse minata la propria mascolinità, vi sarete risparmiate della fatica.

Si tratta di un problema di fiducia ed una grande seccatura. Vorrei fidarmi dei ragazzi come faccio con le ragazze. Forse è perché sono una ragazza e se vedo una gonna corta non mi partono i neuroni, quindi credo di sapere cosa pensa una ragazza. A prescindere dall’orientamento sessuale.

Darebbe fastidio anche a me precisare che le faccende di casa vanno condivise, così come (spero) anche ai ragazzi dia fastidio sentirselo dire. Ma devo dirlo perché temo che venga dato per scontato il fatto che debba preparare il pranzo e rassettare la casa. E io non voglio questo. Se si tratta di un fraintendimento, di un luogo comune, allora il minimo che si può fare è ribadire il contrario. Stare in una relazione significa prendersi cura dell’altro, non limitare le proprie libertà per l’altro.
tumblr_ojax295NKm1und9zxo1_540Se sto uccidendo il romanticismo, mi dispiace. Io sono una persona profondamente romantica, ma non ho intenzione di rischiare la mia vita e libertà. Come si dice: meglio soli che male accompagnati. 

Una relazione, e in particolare una matrimonio, è un contratto e nessuno firmerebbe un contratto solo perché chi lo propone è affascinante e gentile. hhh.PNG

La società ha reso l’amore estremamente complicato, in alcuni casi un vero e proprio pericolo. Forse aveva ragione quel detto: meglio soli…. Ma questa è una menzogna bella e buona: non avere una relazione non significa rimanere soli, ci sono gli amici e i conoscenti. Inoltre, avere una relazione non deve significare staccarsi dal mondo. 

Alessia xx

 

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Materno dilemma

Non ho idea del motivo, ma in questo periodo ho un unico argomento in testa: figli.
Sono quel tipo di persona che si lascia scappare “awwww” di tenerezza quando vede un bambino fare cose stupide ed ingenue, ma sono consapevole del fatto che un figlio tutto mio comporterebbe ben altre responsabilità.

In passato fantasticavo su due temi in particolare: avere un ragazzo e avere un figlio. Per il primo si può immaginare quello che si vuole, ma non si può costringere qualcuno ad avere una relazione. Per quanto riguarda il figlio, parte di me voleva rassicurarsi: il sangue del mio sangue non avrebbe potuto non volermi bene. Non sarei stata quel tipo di genitore che si fa odiare e avrei fatto di tutto per ricordarmi come ero da giovane per non cadere nel tipico comportamento da genitore rompiballe.

Sognavo, e sogno tutt’ora, un figlio anche per rendere il mondo un posto migliore. Credo di essere una brava persona e allo stesso modo vorrei educare i miei figli, che potrebbero fare qualcosa di buono per la società anche semplicemente essendo persone decenti.

Per quanto avere un figlio rimanga qualcosa di fantastico, adesso vedo più chiaramente due difetti che mi spaventano. Primo fra tutti è l’ansia. Non sono una persona ansiosa nel senso clinico, mi preoccupo normalmente come tutti, ma quando sono responsabile di qualcuno, impazzisco. Questo esempio è estremamente personale, ma con tutta probabilità mi ha traumatizzato.

I miei genitori erano partiti per il fine settimana ed ero rimasta a casa con mio fratello. Da poco era stato mandato in onda su Le Iene il servizio sulla Blue Whale Challenge, che ho guardato nonostante sapessi che non digerisco queste storie psicologiche. Come si suol dire, la curiosità uccise il gatto. 

Durante il giorno riuscivo a sopportare, ma la sera è stato orribile: non riuscivo a pensare ad altro. Cercavo di dormire, mentre mio fratello rimaneva sveglio a guardare la TV, ma sentivo il panico diffondersi dentro di me come mai prima di allora, con l’ansia di quello che sarebbe potuto succedere. 

Mai più nella vita, mi dissi. Avere un fratello comporta una quantità di ansia disumana, figuriamoci un figlio.

Il secondo motivo è più pragmatico. A volte avere dei figli è considerato un dovere. Va bene l’amore e la famiglia, ma è indiscutibile il fatto che, arrivati a una certa età, la gente fa figli perché così fan tutti, per poi assistere a un’ondata di genitori insoddisfatti che non fanno il lavoro che vogliono perché si guadagna poco, che non hanno tempo per le loro passioni… Ne vale la pena?

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La domanda sarebbe: perché si fanno figli? Forse per proseguire la specie, anche se a dirla tutta il mondo è in sovrappopolazione. O forse perché si vuole lasciare un’impronta nel mondo, si vuole lasciare il proprio cognome, come un cane che fa pipì per marcare il territorio?

Parlando per quelli della mia età, noi abbiamo sogni e progetti, ma abbiamo bisogno di tempo per realizzarli. Certo, si può lavorare ed essere un genitore nello stesso tempo, ma è complicato e inoltre credo che non tutti abbiano la vocazione del genitore. Personalmente voglio fare molto nella mia vita: ho bisogno di tempo per lavorare, scrivere, leggere, disegnare, stare con i miei amici e stare da sola.

Quando capita che qualcuno ha un figlio molto giovane la gente non si fa problemi a criticare. Perderai gli anni migliori, questo è il tempo per uscire con gli amici e non di badare a un figlio, ti sei giocato/a la gioventù. Quindi per un sedicenne avere un figlio è un ostacolo ai propri sogni, ma non lo è per un trentenne, ovvero quando si è all’inizio dell’indipendenza e della vita adulta? Credo che anche da adulti si abbiano sogni che non siano il matrimonio o i figli. tumblr_otq55bgeIn1w9hvp2o1_540

È egoista pensare che questa è la nostra vita?

Se un figlio è qualcuno a cui impartire un’educazione per rendere il mondo migliore, si potrebbe lavorare su se stessi non sugli altri, anche perché molto spesso tale padre non corrisponde a tale figlio. Se un figlio è qualcuno da cui ricevere amore, si potrebbe adottare un cucciolo e si risparmierebbe sull’ansia. 

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“Preferirei avere dei gatti” (Freddie Mercury)

So che i bambini sono teneri e tanto altro, ma io vivo soprattutto per me stessa.
Forse in futuro cambierò idea, forse no, ma sicuramente non bisognerebbe vergognarsi di un simile pensiero. Essere un genitore è un impiego dal quale tecnicamente non ci si può licenziare: nessuno acconsentirebbe a un lavoro che porta a una preoccupazione e a una dedizione constante, a meno che non si abbia la vocazione. Un po’ come i medici di frontiera o i volontari, solo in pochi sono pronti per questo.

Alessia xx

 

 

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Amore a tempo indeterminato (una poesia)

Vorrei mi notassi
Sulla pista da ballo,
Perché mi sto divertendo
Senza di te.

Vorrei mi notassi
Addormentata sul divano,
Perché è notte fonda
E la festa non sembra voler finire.

Il tuo sguardo
È un’invenzione
Che mi costringe a voltarmi,
Ma tu non ci sei affatto.

Solo nella mia mente
Compari ogni volta
E mi pensi
E mi cerchi.

Alessia xx

nitore: chiarezza, eleganza

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Micah e Lete (una storia)

C’è sempre un momento in cui ci si accorge che i propri incubi sono veri, e quello era il suo.

Nella grotta si gelava e l’umido penetrava nelle loro ossa. Dalla volta scendevano le stalattiti, come infinite spade di Damocle sopra le loro teste, che gocciolavano con irritante precisione. Ogni volta che sentiva quel plick! veniva scossa da un brivido di freddo, quasi la goccia avesse colpito lei e non il suolo. Guardando in alto le pareva di scorgere una luce, ma poteva benissimo trattarsi del velo di lacrime appeso alle ciglia, del quale, seppur strizzando gli occhi, non riusciva a liberarsi.

Era stesa a terra, i vestiti macchiati, due dita contro il collo del ragazzo, proprio sotto la mandibola. Stava controllando che ci fosse ancora il battito, seppure fosse debolissimo.

«Tu…» biascicò lui, prendendole delicatamente il polso e allontanandolo dal suo collo. «Tu…» ripeté. «Puoi andare.» Sembrava quasi che le stesse dando una possibilità, ma la conosceva ormai da troppi anni e sapeva che a lei non piaceva che le dessero ordini. Non doveva, poteva, ma questo non cambiava il fatto che lui volesse che lei si salvasse.

Avrebbe voluto ridere, come faceva sempre alle sue proposte assurde, come aveva fatto quando le aveva chiesto di sposarlo, ma in quel momento gli occhi gli si riempirono di lacrime e un gemito scappò da quelle labbra di porcellana, ormai tragicamente pallide.

«Non vado da nessuna parte.» Lo baciò una volta per soffocare il dolore, il suo o quello del ragazzo non seppe dire, ma lui aveva già smesso di lamentarsi. Gli uomini provano vergogna a mostrarsi vulnerabili, ma lei provava vergogna a non sapere cosa fare per aiutarlo.our_windy_meadows_by_laura_makabresku-d71dls6

Abbassò lo sguardo sulla sua maglia intrisa di sangue e fu come se qualcuno le avesse preso a calci lo stomaco, per quanto le faceva male quella visione.

Non volevano salvare nessuno, non volevano fare gli eroi. Volevano solo andarsene da quella città dove ogni minima libertà personale era violata e ogni violazione giustificata. La loro casa era sotto sorveglianza, la loro lista della spesa era sotto sorveglianza, non perché fossero sospetti, ma perché semplicemente la vita andava così.

Erano usciti una mattina e non erano più tornati, erano corsi nel bosco, oltre il vecchio filo spinato che da bambina credeva fosse un cimelio della Seconda Guerra Mondiale. Non sapevano dove andare, ma muoversi dava loro l’impressione di avere un piano, anche se si trattava solamente di raccogliere uova di tortora per fare colazione.

Per la prima volta si erano sentiti liberi e soli, e lei si era resa conto di odiare infinitamente la divisa color senape da insegnante che indossava ogni giorno, al punto che  avrebbe voluto addirittura dare fuoco alla camicetta e andare in giro svestita. E l’avrebbe fatto, se lui non glielo avesse impedito.

«Sei geloso delle tortore, Micah?» lo prese in giro, incrociando le braccia sui bottoni disfatti.

In cuor suo, Micah temeva che avrebbero presto scoperto la loro fuga, e con il senno di poi aveva avuto ragione, ma a dir la verità non aveva abbastanza paura da non restare eccitato da lei. «Sono delle gran chiacchierone.» le soffiò tra i seni, facendole scivolare la camicetta.

Stavano fuggendo, ma era un bel tempo per vivere.

Era Micah ad essere sporco di sangue, lei era illesa, se non si contava il senso di morte in fondo alla gola. Era stato colpito da una pallottola silenziata quando eventualmente li avevano trovati. Aveva fatto appena in tempo a gettarla nel lago per proteggerla quando aveva visto i Guardiani, per questo all’inizio aveva pensato che si trattasse di uno stupido scherzo.

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«Micah, sei un gran—» aveva riso, levandosi le ciocche bagnate dal viso. Ma anche lui era nell’acqua, statico come un fermo immagine e l’unico movimento era il filo rosso che sbocciava dal fianco destro. Per un istante, pensò che se non avesse raggomitolato al più presto quel filo, di lui non sarebbe rimasto che un inutile bandolo. Poi si rese conto che se così fosse accaduto non sarebbe stato semplicemente inutile, ma anche morto.

I Guardiani avevano attaccato anche lei. Nell’acqua risultava più difficile sfuggirgli, ma aveva afferrato i capelli di uno di loro e l’aveva mandato a sbattere su una delle rocce iridescenti del fondale. Non l’aveva ucciso, ma con qualche fortuna l’aveva affogato almeno un po’.

Erano stati trascinati in quella grotta e per miracolo lui riusciva ancora a mettere un passo dopo l’altro. Non avrebbe risposto delle sue azioni se lo avessero sfiorato una seconda volta. Ma l’avevano fatto, quando con un calcio dietro le ginocchia lo avevano gettato a terra e lei aveva quasi potuto sentire l’orribile suono degli organi spappolati.

Adesso si guardava attorno, forzandosi dal distogliere lo sguardo dal sangue: lui non poteva sollevarsi senza che il fiotto di sangue e umori fluisse fuori dalla ferita. I Guardiani li avevano abbandonati lì, ma non a morire di freddo: presto sarebbero tornati e li avrebbero uccisi, come in quelle storie che si raccontano per spaventare i bambini.

«Lete, vai.» protestò, il sangue gli gorgogliava in fondo alla gola. «Lete.» la implorò. Era il suo messaggio in codice.

La chiamava così, l’aveva sempre fatto. «Grazie a te dimentico quanto questo posto faccia schifo.» Ma lei non poteva dimenticarlo e andare avanti, perché quel posto, tutto quanto, faceva schifo, e l’unica dannata cosa bella stava morendo sotto i suoi occhi.

«To die by your side» iniziò a cantare, baciandolo sul collo con la scusa di controllare il battito «is such an heavenly way to die

Il petto di Micah sussultò e Lete si staccò tormentata, ma stava ridendo. «Non è molto di buon gusto, in questo momento.»

«Non è di buon gusto nemmeno che tu muoia prima di me.» protestò, mentre lui tornava ad accarezzarle i capelli castani. Con la coda dell’occhio, vide alcuni movimenti, ma questa volta non si trattava di lacrime, quelle le aveva finite.

Nel momento in cui lui smise di pettinarla, seppe di essere morta.wings_by_laura_makabresku-d70lmaq.jpg

Alessia xx
(un abbraccio virtuale alle 30 persone che mi hanno seguito fino a questo momento. ho deciso di scrivere qualcosa di diverso, di condividere un’altra parte di me – non la scrittura, ma i miei sogni poco normali! tutte le immagini sono di laura-makrabresku)

pedissequo: chi segue passivamente un modello, senza originalità

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Caterina e la nuvola d’oro: una vita a rovescio

Ho conosciuto Simona Baldelli alla presentazione del suo nuovo libro: dopo tanti anni a calcare il palcoscenico, ha una strana difficoltà nel definirsi scrittrice, nonostante La vita a rovescio non sia il suo primo romanzo.

«La storia di questo libro nasce grazie a una sbronza»

Un’amica le aveva regalato un libro dalla copertina arancione – no, rossa, ma chissà perché la sua mente continua a ricordarla arancione. Si trattava di un saggio storico, non esattamente il suo genere preferito, ma per non fare un torto a nessuno aveva nascosto il libro in valigia, senza nemmeno darvi un’occhiata.

Dopo le birre strappate all’unico locale ancora aperto a quell’ora di notte e con troppo poco sonno in corpo, il giorno dopo vagava per le sale conferenze del Salone Internazionale del Libro, alla ricerca di un angolino in cui riposarsi. Seduta in fondo a una sala semivuota, il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu: «Sicuramente stanno presentando un saggio storico».

«Un poco alla volta mi sono svegliata e ho iniziato a sentire dei suoni. Poi quei suoni si sono trasformati in parole e quelle parole in frasi. E quelle frasi in una storia bellissima. Stavano presentano quel mio libro con la copertina arancione»

cover.jpgCon il viso deturpato dal vaiolo, Caterina Vizzani vive a Roma. Tiene i conti per la falegnameria del padre ed è più sveglia di molti maschi che comandano il suo piccolo mondo. Nella scuola di cucito che è costretta a frequentare, Caterina conosce Margherita dai capelli d’oro.

Margherita che non ha paura della cicatrice sul suo viso – anzi, quando sono insieme è Caterina a dimenticarsi di essere tanto imperfetta. Margherita che ogni sera le racconta dell’amore tra Bradamante e Fiordispina come fosse un loro segreto, e forse c’è davvero qualcosa da tener nascosto: natura, no – stregoneria.

Qualsiasi sia quel nome tanto sospirato dalle due amanti, troppo grave è la colpa di Caterina, che è costretta a fuggire da Roma. Un’infestazione di cimici le farà scoprire Giovanni Bordoni. Grazie a lui, Caterina deciderà di mandare all’aria quel copione striminzito impartitole per nascita e nel suo nuovo costume, comincia a sentirsi padrone della scena, padrone del mondo.

Perché adesso che è un maschio, la sua cicatrice vaiolata non spaventa più le donne, ma le seduce, e l’ambizione all’indipendenza tanto condannata in Caterina, per Giovanni diventa sinonimo di grandezza d’animo. Il suo più grande desiderio è diventare un cavaliere come Bradamante, ma la brama di un potere negato alle donne spesso allontanerà Giovanni dal fare la scelta giusta, dal creare il suo regno a rovescio.

Quando mi è stato proposto questo libro sono stata molto felice di dargli un’occasione: personalmente non avevo mai letto un autore italiano parlare dell’identità sessuale e in generale è un tema su cui mi piace discutere.

cover.jpgInoltre, la caratteristica di questo romanzo è che nonostante la questione affrontata ovviamente influisca sulle scelte di Caterina, la storia non ne viene monopolizzata. Non ci sono capitoli eterni sull’educazione sessuale o manifesti per la parità dei diritti: è la storia di una ragazza vera che vuole essere libera, anche se per farlo deve indossare un costume, e anche se questo può sembrare una contraddizione.

Proprio il fatto che sia una storia vera in alcuni casi potrà farvi arrabbiare: a tratti Caterina mi era sembrata egoista e maschilista. Non riuscivo ad accettare come proprio lei, avendo una possibilità di riscatto, potesse preferire i privilegi maschili della vita sessuale e lavorativa! Avrebbe potuto ribaltare il mondo, invece si era limitata a scalarlo.

Questo perché siamo abituati personaggi realistici, ma inventati – personaggi che possono farsi carico di essere paladini della giustizia senza in realtà perdere nulla, perché la loro vita nasce direttamente dalla tastiera dello scrittore. Nella vita vera, invece, pur avendo idee di giustizia e di parità, il primo istinto è sempre quello di proteggersi.

Consiglio La vita a rovescio di Simona Baldelli a chi ama le vite avventurose e turbolente, a chi non può credere che tutto ciò sia realmente accaduto e a chi – invece – ha sempre creduto che la letteratura e la poesia siano roba da pazzi.

Alessia xx
(Simona Baldelli è pubblicata da Giunti Editore: trovate qui tutti i suoi libri
La vita a rovescio è stato nominato libro del mese per Fahrenheit-Radio Tre)

picacismo: disturbo dell’alimentazione caratterizzato dall’ingestione prolungata di sostanze non nutritive (carta, legno…)

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A contestare Piero Angela

«L’omosessualità non è una malattia […] ma la malattia è l’omofobia, e alla base di questo ci sono le stesse molle che aizzavano i nazisti»

Non credo  (non posso credere) che l’omofobia sia una malattia, perché questa definizione la giustificherebbe. La mia solita vena critica è impaziente: lasciatemi spiegare!

Se l’omofobia fosse una malattia, potremmo giustamente paragonarla ad altre fobie, come l’idrofobia, l’acluofobia, l’ofidiofobia – che sono tutte valide e hanno ragioni per esistere: senza saper nuotare si può affogare, nel buio può nascondersi un pazzo maniaco e anche un serpente velenoso può uccidere.

Al contrario l’omofobia non è una fobia: gli omosessuali non sono più criminali o più indecenti degli etero, non sono velenosi e non mordonoSarebbe quasi più sensato parlare della generica paura delle persone: un’esasperazione, certo, ma guardando in faccia la realtà, non mi sembra una cosa tanto ingiustificata.

L’omosessualità non è una malattia contagiosa da scansare: ho paura dell’ebola, perché ha ucciso e continua a farlo. Essere gay non ha mai ucciso nessuno – ah, no, scusate.

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«Alla base di tutto c’è sempre un problema culturale […] per questo la migliore prevenzione ha un solo nome: educazione» e un po’ salvano la discussione.

Mi piacciono le parole, soprattutto quelle giuste e ho capito quello che intendeva fare il professor Jannini: una frase ad effetto proprio niente male. Nella mia mente, gli ho anche dato una pacca sulla spalla, ma bisogna stare attenti alle definizioni: se l’omofobia fosse realmente una malattia, quante violenze sarebbero tecnicamente scusate davanti alla legge?

In un processo, ci si potrebbe appellare allo stato di infermità mentale, ottenendo delle attenuanti – in verità dando una giustificazione all’intolleranza e al pregiudizio.

La mia immaginazione corre troppo? Spero di sì e spero perdonerete questo mio discorso esasperato. A proposito di fobie, avete mai sentito parlare di eterofobia?

Alessia xx

acluofobia: paura dell’oscurità e del buio

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Eterofobia: una spiegazione

Tralasciando l’identità religiosa dell’assassino del Pulse di Orlando, è comunque impossibile negare che dietro le sue azioni ci sia stata una convinta omofobia.

Cosa è l’omofobia? Più che di paura, si tratta dell’avversione nei confronti di omosessuali, bisessuali e transessuali, ovvero di chiunque non sia attratto (esclusivamente o biologicamente) dal sesso opposto.

In ogni caso, è una verità socialmente accettata che la comunità lgbt+ non sia più indecente o più criminale di quanto lo siano gli eterosessuali.

L’omofobia è quindi una discriminazione, dettata dai pregiudizi e dall’eteronormatività.

Cosa è l’eteronormatività? La credenza che esistano solo due generi (maschile e femminile) e che l’unico orientamento sessuale possibile sia l’eterosessualità.

Alla luce dei fatti di Orlando mi sono chiesta se non fosse più logico parlare di eterofobiadato che è la comunità lgbt+ a vedersi negare alcuni diritti e ad essere attaccata con le parole e con le azioni.

A quanto pare, la parola eterofobia esiste – non ufficialmente e non sui dizionari – ma il significato che le è stato attribuito non mi ha totalmente convinto.

Sul piano etimologico indica la paura di chi è diverso, ma questo concetto è già espresso dalla xenofobia, la paura dello straniero, di colui che ha una cultura e uno stile di vita diverso dal nostro.

Si potrebbe considerare l’eterofobia come l’opposto dell’omofobia, quindi come l’avversione nei confronti degli eterosessuali in quanto tali, ma ciò porterebbe ancora una volta a una discriminazione, piuttosto che a una vera e propria paura.

Cosa è l’eterofobia? E’ la paura degli eteronormativi, ovvero di coloro che non concepiscono e non tollerano le diverse identità sessuali e di genere, ed esprimono tale intolleranza con violenza verbale e fisica.

L’eterofobia è un’invenzione?

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Dopo la strage di Orlando di certo non saranno gli etero ad aver paura di essere fucilati a tradimento durante una festa.

Alessia xx
(trovate qui una definizione più specifica dell’eterofobia secondo il mio parere)

mahrokh: (persiano) letteralmente “viso di luna”, un complimento usato principalmente per le donne, dove la luna rappresenta il più alto livello di bellezza

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Eterofobia

L’eterofobia è la paura di condividere la propria non-eteronormatività con gli eterosessuali perché questi potrebbero rivelarsi eteronormativi.

E’ aver paura di confidare dubbi riguardo la propria identità sessuale o di genere perché gli etero potrebbero sminuirli come «solo una fase».

E’ aver paura di chiedere opinioni riguardo questioni lgbt+ perché gli etero potrebbero essere contrari a ciò che tu ritieni un diritto.

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E’ aver paura di dichiararsi omosessuale, bisessuale, transessuale, pansessuale o asessuale perché gli etero potrebbero iniziare a trattarti diversamente.

E’ aver paura di dimostrare pubblicamente la propria attrazione non-eteronormativa perché gli etero potrebbero condannare la tua natura.

E’ andare in un gay club, dove non dovresti aver paura di nessuna delle cose precedenti, e aver paura che un eternormativo mentalmente instabile possa aprire il fuoco e massacrare degli innocenti.

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Ma l’eterofobia nel nostro vocabolario ancora non esiste.

Alessia xx
(ho spiegato qui il perché dell’eterofobia)

eteronormatività: la credenza che esistano solo due generi (maschile e femminile) e che l’unico orientamento sessuale possibile sia l’eterosessualità.