2

Il giro del mondo in 20 ricette (e un videogioco in 48 ore)

Quando: 3-5 febbraio 2023
Dove: tutto il mondo



Lo sapevate che una volta all’anno si tiene un evento mondiale che chiama a raccolta appassionati di videogiochi da tutto il mondo? Oggi vi porterò con me alla scoperta della Global Game Jam! Quest’anno è stata la mia prima volta e ho tanti bei ricordi freschi da condividere.

La Global Game Jam è un evento annuale (fine gennaio-inizio febbraio) e vi partecipa gente con ogni sorta di talento, uniti da una particolare ambizione: creare un gioco nell’arco di un weekend (definizione tecnica: jammare). La fauna della Jam: programmatori con i loro codici colorati, illustratori, musicisti che usano gli oggetti più disparati per creare effetti sonori. E poi, anche qualche persona che si è imbucata… quella persona ero io.

In realtà, non mi trovavo lì per caso: sono specializzata in traduzione dei videogiochi e volevo conoscere altre persone “del mestiere”, unendo l’utile al dilettevole, come si suol dire. Su suggerimento di amici e dopo un forte auto-convincimento, mi sono iscritta all’evento della GGJ organizzato dall’associazione Game Art Dev di Bari. Non avevo abilità tecniche da offrire, forse solo la mia mia creatività e la passione per la traduzione, magari per creare un gioco sia in inglese e che in italiano. Ma temevo che mi sarei sentita un pesce fuor d’acqua e dicevo ai miei amici: “vado a vedere cos’è sta Jam, ma poi torno a casa”. Little did I know….

La GGJ si è tenuta dalle 19 di venerdì alle 17 di domenica: più o meno 48 ore per creare un gioco che funzioni. Vi sembra poco tempo? Beh, lo è. C’è chi sceglie di rinunciare al sonno per portare a termine il lavoro, chi invece decide di volare basso con un’idea semplice, cercando di conquistare quelle 5 ore di riposo a notte. L’importante è incontrarsi in una delle sedi, fare team, creare e divertirsi.

Il tema della Jam di quest’anno era “RADICI”, e ognuno era libero di interpretarlo in qualsiasi senso volesse, o anche di fregarsene e creare qualcos’altro. Gli organizzatori di Bari sono stati molto disponibili, trasmettendo la voglia di essere lì a godersi l’esperienza (senza pagare o vincere nulla) e offrendo pranzi a base di focaccia e mortadella, alla barese maniera. Al blocchi di partenza, dunque.

La prima fase della Jam è quella della formazione dei team. Alcune persone si conoscevano già, ma molti altri erano lì tanto sperduti quanto me. Appena è stato dato il via, mi sono voltata verso i miei vicini e in un istinto di sopravvivenza ho detto: vi va di lavorare insieme? In pochi minuti abbiamo creato un team con 3 sviluppatori, 3 modellatori 3D, 1 musicista e me, una linguista. Gli ingredienti c’erano tutti.

Giorno 1: brainstorming. Cosa vi fa venire in mente la parola “radici”? Ognuno aveva un’idea diversa: le radici degli alberi, quelle da mangiare come le carote, oppure quelle culturali. Da un’idea ne nasceva un’altra, andavano a mergersi e a migliorarsi, finché non siamo giunti a una conclusione. Forse era la fame (nel frattempo era arrivata l’ora di cena), ma abbiamo scelto di parlare delle radici culturali attraverso il cibo, inserendo nel nostro gioco tutti quei cibi che appaiono strani e insensati (come la pizza con l’ananas), ma che invece hanno una precisa ragione. Ragioni stravaganti, spesso politiche. Le origini dei cibi ci avrebbero condotto alle radici dei popoli.

Giorno 2: sveglia presto e alle 9 eravamo già operativi. Con l’idea chiara in mente, dovevamo pensare a come realizzarla. Quale sarebbe stata la dinamica di gioco? Un platform? Una visual novel? Che stile avrebbe avuto la grafica? Quanti tasti sullo schermo? Quali parole usare per raccontare la storia di questi cibi?
Tutti hanno lavorato intensamente e a me pare ancora una magia vedere sullo schermo dei modelli 3D a forma di kebab realistico. Oppure, pensare che (moltissime) linee di codice alfanumerico possano trasformarsi in immagini e parole sensate. Meglio lasciare i segreti agli esperti, io mi godo l’effetto stupore.

Io mi sono occupata di fare ricerche e scrivere le descrizioni dei cibi in inglese e italiano. La fase di ricerca è stata molto interessante e delicata: certo, era “solo” un gioco, ma non potevamo rischiare di diffondere false informazioni. Inoltre, come abbiamo presto imparato, tutte queste ricette “strane” che stavamo raccogliendo erano strane per una ragione: derivavano dall’incontro di più popoli, di solito per immigrazione e colonizzazione… dunque il fact checking doveva essere quanto più accurato possibile.

Giorno 3: eravamo avanti sulla tabella di marcia. Tutti i testi erano scritti e tradotti, tutti i disegni consegnati. Il codice, quasi completo. Stavamo cantando vittoria… ma forse era troppo presto. Quando abbiamo iniziato a unire i lavori di tutti in un unico grande progetto, ci siamo resi conto di quanto fossero vicine le 17, orario in cui tutti i giochi dovevano essere caricati sul sito della GGJ. La stanchezza e le ore passate davanti allo schermo iniziavano a farsi sentire e tutto l’hype che avevo provato fino a quel momento è iniziato a calare quando abbiamo riscontrato problemi tecnici. Il bello della diretta, e in generale della programmazione a quanto pare.

Tranquilli, questa è una storia a lieto fine: i programmatori sono riusciti a scovare i maledettissimi bug e far funzionare tutto, la Jam era salva! Alla Jam di Bari sono stati creati ben 5 giochi, 5 idee diverse per trama e stile. Pensate dunque a quanti nuovi piccoli giochi esistono nel mondo oggi rispetto a 3 giorni fa. Impressionante, vero?

Tempo di svelare il nostro gioco!

La cultura affonda le proprie radici nel cibo… ma vi siete mai chiesti le origini delle diverse ricette

Si chiama “Foods & Roots” ed è un drag-and-drop. Il giocatore vedrà di volta in volta l’immagine di una pietanza con il nome e dovrà posizionarla correttamente sul globo terrestre. Venti ricette, cinque tentativi ciascuna e un sistema di indirizzamento: se si clicca sul Paese sbagliato, si leverà un vento che punterà nella direzione giusta, la cui intensità debole-media-forte indicherà quanto lontano è l’obiettivo. Pensate sia facile? Allora non avrete problemi nell’indicare il Paese di origine della pizza con l’ananas…

Il gioco è disponibile sulla pagina ufficiale della Global Game Jam e scaricabile su PC. Ѐ un gioco molto interessante (sono di parte, eh), perfetto da giocare sia da soli che con gli amici per cercare di azzeccarne il più possibile. Mi farebbe molto molto piacere leggere un vostro parere qui nei commenti. L’impegno è stato tanto, il tempo limitato, il risultato sicuramente imperfetto, ma noi siamo molto fieri del risultato!

Tre giorni fa nulla di tutto questo esisteva. Non esisteva neanche che io mi iscrivessi da sola ad un evento nel quale c’entravo molto poco… e sono contenta di averlo fatto. Ho assistito alla creazione di qualcosa di cui sono parte anche io. Senza di me, e senza ognuno degli altri membri del team, sarebbe uscito un gioco diverso: questo determinismo lo rende ancora più speciale.

Sarà scontato da dire, ma maybe the real treasure is the friends we made along the way. Abbiamo lavorato a stretto contatto per ore e ore, tutti concentrati su un obiettivo comune. Dall’essere sconosciuti al prendere confidenza, mangiare insieme pranzo e cena e scoprire interessi in comune, dare e ricevere consigli di lavoro e di vita. Ho conosciuto persone che sono davvero brave in quello che fanno e per tre giorni siamo diventati amici, poi il resto si vedrà (ora che ci penso, questa situazione mi fa venire in mente la trama del film Queen).

E’ un’esperienza che rifarei. Avrei sempre un po’ di paura? Sì, ma penso che mi convincerei di nuovo ad andarci. Chissà, magari anche partecipando a Jam in altre città d’Italia o d’Europa, le possibilità sono davvero tante. Buon gioco a tutti e spero che parteciperete alla prossima Jam, ovunque voi siate!

Crediti al team di “Foods & Roots” (chissà se incontreranno mai questo articolo sull’Internet): Alberto Putignano, Alessia Schiavone, Federica Asia Zambetta, Lucia Patrono, Stefano Romanelli, Stefano De Robertis, Stefano Sanitate, Riccardo Reina

Alessia

0

Lavoro e performance

Mi ritrovo a fissare lo schermo bianco e il cursore che pulsa, alla ricerca delle parole giuste per descrivermi. Devo fare una buona impressione se voglio che mi notino, soprattutto dal momento che non ho molta esperienza lavorativa. Allora devo spingere al massimo le mie doti retoriche, esaltare le mie capacità di enterpreneurship, la mia attitudine verso il team work.

Questo è quello che viene spesso ridicolizzato come “gergo di Linkedin”, dove il lavoro di cameriere è probabilmente descritto come “responsabile della food security and safety in un family business“. (Rispetto per i camerieri, il punto di questo articolo è chiaramente un altro). E non fraintendetemi, sarebbe più o meno tutto vero e ci si potrebbe anche immedesimare, se solo la cosa non fosse raccontata in modo tanto pretenzioso. Ma il nocciolo è questa necessità di trasformare qualsiasi cosa in un atto performativo e faccio riferimento soprattutto a Linkedin. La colpa, ovviamente, non è di chi scrive in questo modo, perché è ormai un circolo vizioso: tutto deve apparire professionale e professionalizzante, e se non partecipi al gioco – perché è essenzialmente un gioco di retorica – sei un po’ un reietto: l’animatore del camposcuola tra i team-building manager – e così via, potremmo fare un gioco a trovare sinonimi trendy per tutti i lavori.

Ora, qualcuno potrebbe giustamente dire: se non ti piacciono, non leggere quei post. Al che risponderei: purtroppo nel mondo di Linkedin, e nel più generale mercato del lavoro, sono costretta a navigarci e la realtà è che – facendo riferimento al mio settore, ovvero la traduzione – dire “ho accompagnato gli zii dell’America a vedere le chiesette del mio paese” è ben diverso dal dire “organizzo tour in lingua inglese per appassionati di arte romanica pugliese“. Per non rischiare di essere esclusa dalla corsa al lavoro, anche io devo abbellire il mio CV, le mie esperienze, e la cosa peggiore è quando non hai ancora esperienze, perché devi abbellire anche quel vuoto.

Così, manca poco alla laurea magistrale e mi trovo in questa finestra temporale in cui il pensiero di non avere un lavoro – qualsiasi lavoro – viene alleviato solo in parte dalla giustificazione del “per ora sto pensando alla laurea”.

Dunque, nell’attesa di trovare proposte interessanti, o che qualcuno risponda alle mie candidature, ho iniziato a sistemare profilo Linkedin e CV, che comunque serve sempre. (Sto usando Canva, per chi fosse interessato, ed è magnifico se vi piace allineare tutto con grande soddisfazione). Modifico il CV, impagino in modo aesthetically pleasing e onestamente sono molto soddisfatta: a giudicare dalle mie doti grafiche, mi assumerei. Poi passo al profilo Linkedin, che ammetto di non curare molto, per i motivi di cui sopra: post pretenziosi e un leggero senso di depressione quando vedo che tutti trovano lavoro tranne me. (Sono autorizzata a una punta di autocommiserazione se vi ricordo che ho 23 anni e sono autoironica?). Ma comunque ha anche i suoi pregi.

Sistemata la mia “vetrina”, resta ancora un problema: io su Linkedin di post non ne scrivo e non ne commento. Come diremmo noi giovani “non ho sbatti”: vorrei trovare lavoro, e non scrivere di voler trovare lavoro, se ha senso il ragionamento. Invece, sembra che sia assolutamente necessario farlo, far sentire la propria voce, come se tutti dovessero avere un blog per dire cose intelligenti. Personalmente, la trovo una cosa estenuante: è diventato un social network, nel senso negativo del termine, al livello di Facebook e Instagram, ma per workaholics. Tuttavia, quando questa mania di abbellimento tocca ambiti più seri come il lavoro, non mi piace più così tanto. Suppongo che, se si chiama “mercato del lavoro”, un motivo ci sarà: ci mettiamo tutti in vendita e alla fine diventa un po’ una fiera, a chi strilla più forte, a chi ha il baracchino più colorato. Non tutti sanno fare i venditori in fiera, però, non tutti vogliono farlo, eppure dobbiamo, altrimenti saremo fuori dalla festa.

Non voglio fare della mia ricerca di lavoro-assunzione-promozione-licenziamento una performance. Non voglio dover curare nei minimi dettagli la grafica del mio CV e abbellirlo con iperboli per avere più probabilità di essere scelta. Non voglio mostrare la mia “mercanzia”. Vorrei poter dire: ecco quello che so fare, ecco quello che vorrei fare, spero mi considererete. Certo, il modo in cui si dicono le cose è importante, non stiamo mica parlando di essere sbrigativi o sciatti, bensì di non dover essere necessariamente performativi – così come ci si presenta ad un colloquio di lavoro vestiti in maniera adeguata per l’occasione, senza essere giudicati più o meno meritevoli per il suddetto abito.

La conclusione è che… non posso farci nulla, devo usare le mie doti retoriche anche se non è nelle mie corde e chissà, posterò la foto della mia laurea ringraziando l’università con parole commosse come fanno in molti. Però dentro di me, al momento, penso: vorrei che siano i miei diplomi a farmi trovare lavoro, le competenze che ho e quelle che cerco di colmare con il desiderio di imparare. Trovare lavoro non dovrebbe essere determinato dalla bellezza di un CV o di un profilo Linkedin.

Alessia

1

Stonata, ma poliglotta?

«Se avessi un solo desiderio, cosa desidereresti?»

Fino a un anno fa avrei risposto «essere almeno un poco intonata» perché, passi “tanti auguri a te”, per il resto del mio repertorio non c’è via di salvezza. Adesso, invece, ciò che desidero veramente è parlare, scrivere e comprendere più lingue, come il francese, lo spagnolo e il giapponese.

Per questo, quando ho avuto la possibilità di frequentare per una settimana la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici a Pisa in men che non si dica ho prenotato l’autobus (per la bellezza di 16 ore di tortura viaggio) e mi sono catapultata a Pisa con il mio bel cartellino da “Visitatore” appeso al collo.

La nostra prima lezione è stata Traduzione audiovisiva (non che il nome spieghi molto): in pratica, sottotitolaggio e doppiaggio di Peppa Pig.

Può sembrare semplice e imbarazzante, ma quando devi tradurre «who buys all this rubbish?» e la prima traduzione che ti viene in mente è «chi compra tutta questa merda?», ma non puoi assolutamente scriverla perchè devi pensare ai bambini!… Lì capisci come anche la traduzione di Peppa Pig non sia poi così scontata.

static1.squarespace.jpg

Una lezione particolarmente strana è stata Mediazione linguistica orale, ovvero come i traduttori in diretta dei talk show. La generale idea di fare una traduzione del genere era inverosimile soprattutto perché (scientificamente provato) avremmo dovuto usare simultaneamente i due emisferi cerebrali, per ascoltare e tradurre all’istante (o quasi).

Con molta probabilità i miei emisferi sarebbero collassati (ma gli interpreti professionisti possono tradurre simultaneamente solo per mezz’ora, quindi il mio noncollasso è giustificato).

Indossando le cuffie, dovevamo ripetere ciò che la prof leggeva – nel momento stesso in cui leggeva – e contemporaneamente scrivere numeri in ordine decrescente.
Inutile dire che le nostre serie contavano più numeri del dovuto, e neanche nell’ordine giusto 😌

La regina della nullafacenza (Conversazione) si è rivelata invece la lezione migliore in assoluto: nessun innovativo metodo d’insegnamento, solo conversazione. Ma quando a parlare è una persona decente come Beth, ognuno trova un poco di coraggio per dire la sua.

Questa settimana a Pisa ha reso un po’ più possibile il mio famoso desiderio: non so ancora scrivere in giapponese e tutto ciò che capisco quando ascolto il francese è un gorgoglio di erre e in verità non ho alcuna certezza di poter studiare in quella scuola, ma so che potrei realizzarlo. Anche se non frequento un linguistico, anche se ci sono così tante parole che non conosco e che non so nemmeno pronunciare.

Perché ho capito che è quello che vorrei fare: scegliere le parole giuste per tradurre quei libri che ho letto in lingua – libri bellissimi da non smettere di leggerli – e farli conoscere a chi non si sognerebbe mai di leggere in una lingua straniera.

Più semplicemente, sono fan (di un numero spropositato di cose), e so quanto sia importante una buona traduzione: magari potrei essere d’aiuto.

Alessia xx

nottivago: una persona che vaga di notte o che è sonnambulo