Dopo la visita a Terezin e Lidice ci siamo messi in viaggio verso Cracovia, dove ci saremmo riuniti con i gruppi provenienti da Budapest. A un’oretta di autobus da Cracovia ci sono i campi di concentramento di Auschwitz I e Auschwitz II, meglio conosciuto con il nome di Birkenau.
Quando ho visto il cancello di Oświęcim, trasformata in Auschwitz dai nazisti, e la scritta “arbeit macht frei”, nonostante avessi già letto quelle parole nel campo di Terezin, mi sono commossa. Suggestionata dalle parole della guida e da alcuni attori che hanno riferito i racconti di sopravvissuti e non, ho pensato che, di lì alla fine, la visita sarebbe stata una discesa senza fine di lacrime. Ma mi sbagliavo.
Probabilmente il mio parere sulla vista nei campi potrebbe lasciarvi insoddisfatti, ma ho intenzione di raccontare la mia esperienza e le mie aspettative: Auschwitz non era come me l’aspettavo. E come me l’aspettavo? Non so.
Forse mi aspettavo di vedere segni evidenti di distruzione e i pallidi riflessi dei prigionieri, ma l’unica cosa che dai film alla realtà era rimasta la stessa era il cancello d’ingresso. Quello l’ho potuto capire, perché era qualcosa che conoscevo.
Tuttavia Auschwitz sembra un ghetto con le costruzioni di mattoni rossi e le strade così larghe da permettere forse a due camionette militari di passare nello stesso tempo. C’è più silenzio che in un normale cimitero.
Ciascun edificio è diventato un museo e tutto è pulito e ben organizzato, il che fa onore al museo, ma rende il campo un po’ artificioso. Come ho già detto, appena arrivati non avevo idea di cosa avrei visto, anzi forse un’idea ce l’avevo, ma l’unica maniera che avrei avuto per realizzarla sarebbe stato visitare il campo nel 1945. Dentro un museo e dietro un vetro tutto sembra più lontano.
Abbiamo visitato diverse esposizioni, a partire dai bagni, perfettamente conservati, sulle cui pareti i prigionieri avevano dipinto scene di vita bucolica. Come i bambini di Terezin, quello che agognavano era la natura, l’innocenza e l’acqua.
Le pareti di un corridoio erano occupate da teche che custodivano scarpe di ogni forma e dimensione, ma stranamente di soli due colori, marrone e rosso impolverato. Non so spiegare perché a distanza di 70 anni quello è l’unico a non essere ancora sfumato, tuttavia mi sono chiesta se sia stato per questo motivo che il solo colore nel bianco e nero di Shindler’s List è proprio il rosso.
Agli inizi di Auschwitz tutti i prigionieri erano schedati e fotografati. Dopotutto, dovevano fare rapporto a Berlino e i nazisti hanno sempre avuto la fama di essere precisi e scrupolosi, ma a dir la verità per loro la fotografia non era solo un dovere imposto dall’alto, bensì un rudimentale mezzo per divertirsi. Rispetto alle centinaia di migliaia di prigionieri passanti per il campo, le fotografie scattate sono state meno di un decimo e la maggior parte sono state distrutte prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. Tuttavia, quelle poche salvate sono ora esposte in due padiglioni, su una parete gli uomini, sull’altra le donne.
I nostri educatori ci hanno chiesto di appuntarci il nome di un prigioniero, uno qualsiasi, uno il cui viso ci comunicava qualcosa. Io ho scelto Aurelia Bienka, perché aveva riservato al suo fotografo uno sguardo di sfida, con un minuscolo sorriso sornione. Tutti i nomi scritti sulle fascette di tessuto ci sono servite per una cerimonia al campo di Birkenau, di cui parlerò più tardi.

Centinai di barattoli di Zyklon B, la polvere tossica usate nelle camere a gas, sono stati ritrovati intatti, pronti per l’utilizzo.
Le esposizioni di Auschwitz sono continuate in altri padiglioni assegnati alle diverse nazioni vittime dell’olocausto, in modo che ognuno potesse ricordare in maniera degna i propri morti. Non siamo rimasti affatto sorpresi nel constatare che l’unico padiglione chiuso fosse quello dell’Italia. Infatti, circa 6 anni fa sono venuti meno i fondi del progetto, mentre da un anno l’edificio è stato completamente svuotato. Considerando che l’Italia non ha mai fatto pubblica ammenda per i delitti dell’olocausto di cui è stata comunque complice, l’aver chiuso anche l’esposizione di Auschwitz non ci fa esattamente onore.
Parlando di aspettativa, Birkenau è esattamente quello che ci si aspetta quando si pensa a un campo di concentramento, forse è per questo che molti più dettagli mi sono rimasti impressi. I binari interrotti, gli scheletri delle baracche in lontananza, i camini di mattoni che nell’orizzonte si confondono con i tralicci del filo spinato.
Birkenau era un posto soltanto per i prigionieri, mentre i soldati avevano gli uffici ad Auschwitz I. Gli unici mattoni sono quelli delle case del fu paese polacco, usati per costruire 33 delle 50 ca. baracche ancora presenti.
Oltre alle 33 in mattoni ne furono costruite altre 300 000 in legno per accogliere tutti i prigionieri smistati da Auschwitz. Birkenau, infatti, è stato costruito più tardi per esigenze di “spazio” e non solo. All’inizio, Auschwitz era un campo prettamente maschile e le donne e i bambini, che erano comunque deportati, venivano uccisi al loro arrivo. In seguito Auschwitz venne divisa da un muro per separare uomini e donne, poi si decise di costruire Birkenau, per donne, bambini, polacchi, omosessuali e ancora, e ancora.
Le baracche sono in realtà delle stalle portate dalle Germania. Usate a dovere, le stalle potevano contenere 42 cavalli, ma a Birkenau servivano a 400 prigionieri cada una. Erano un tetto sopra la testa con le pareti di spifferi e solo chi dormiva nel letto centrale della struttura a castello poteva evitarli.
Solo una cinquantina di baracche sono ancora visitabili, perché fu estremamente facile appiccare il fuoco al legno e distruggere tutto all’arrivo dell’Armata Rossa. Quello che è rimasto sono i camini. Può sembrare strana questa presenza, ma come ho già detto i nazisti erano molto scrupolosi e il riscaldamento era previsto per legge. Persino a Auschwitz c’erano i termosifoni, spenti d’inverno e portati al massimo d’estate. A Birkenau, invece, non ci vuole un ingegnere per capire come per far funzionare quei forni si sarebbe dovuta sfidare la fisica e la legge della convezione.
Percorrendo i binari fino in fondo fino al punto morto, lì ai vostri lati troverete ciò che resta dei forni crematori originali, collassati su se stessi dopo il tentativo di farli esplodere. Oltre i forni, invece, si trova un monumento funebre, con una serie di targhe ognuna in una lingua diversa e una enorme lapide su cui è stato inciso un piccolo triangolo cavo. La toppa che i prigionieri portavano cucita sul petto, non importa se rosa, gialla, viola, marrone o rosso.
Durante la cerimonia organizzata dal Treno della Memoria ognuno di noi ha letto al microfono il nome che aveva scelto ad Auschwitz, accompagnandolo con le parole “Io ti ricordo”. Le persone, non la classe sociale, perché anche la sofferenza del singolo merita di essere commemorata, non solo quella dello Stato.
La cosa più difficile da fare nei campi è immaginare com’è stata la vita lì. Non intendo comprendere la fame e il freddo, ma vederlo con l’occhio della mente. Grazie alla nostra guida e alle letture degli attori abbiamo ascoltato numerose testimonianze mentre calcavano la neve del campo, ma ho trovato difficile mettermi nei panni dei prigionieri.
Come posso immaginare centinaia di corpi spogliati di ogni cosa e schiacciati in una cella 3×3? O ancora, come posso immaginare di rimanere sette e più ore al gelo, coperta solo da una tunica a righe, mentre gli ufficiali fanno la computa serale, conteggiando vivi e morti perché nessuno deve uscire dal campo e se pure uno muore mentre lavora deve essere riportato dentro a forza perché i conti devono tornare. Altrimenti dieci fucilazioni per ogni prigioniero mancante.
Siamo abituati a misurare tutto con i nostri cinque sensi: se un posto è troppo piccolo, si entra in piccoli gruppi o inizieremo a sentirci soffocati; se fa bel tempo e a Cracovia ci sono – 10°, sovrapponiamo strati e strati di vestiti. Tuttavia, in inverno la Polonia raggiungere normalmente i – 25°, io non riesco a concepirla nemmeno questa temperatura.
Le azioni e le condizione di Auschwitz, Birkenau e molti altri campi sono state, sì, disumane, ma io aggiungerei oltre l’umano. La cosa importante è questa: se non riuscite a immaginare quei luoghi, guardate bene come sono adesso.
Se non riuscite a capire da che parte vi sareste schierati, se quelle delle vittime o quella degli ignavi, pensate a dove schierarvi adesso, perché le deportazioni e i campi di concentramento e i bambini di Lidice non sono ancora scomaprsi.
Alessia xx
(ho già visitato Terezin e Lidice qui)
jayus: (indonesiano) una pessima battuta a cui non si può far a meno di ridere