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Auschwitz e Birkenau – Dzień 2

Dopo la visita a Terezin e Lidice ci siamo messi in viaggio verso Cracovia, dove ci saremmo riuniti con i gruppi provenienti da Budapest. A un’oretta di autobus da Cracovia ci sono i campi di concentramento di Auschwitz I e Auschwitz II, meglio conosciuto con il nome di Birkenau.

Quando ho visto il cancello di Oświęcim, trasformata in Auschwitz dai nazisti, e la scritta “arbeit macht frei”, nonostante avessi già letto quelle parole nel campo di Terezin, mi sono commossa. Suggestionata dalle parole della guida e da alcuni attori che hanno riferito i racconti di sopravvissuti e non, ho pensato che, di lì alla fine, la visita sarebbe stata una discesa senza fine di lacrime. Ma mi sbagliavo.

Probabilmente il mio parere sulla vista nei campi potrebbe lasciarvi insoddisfatti, ma ho intenzione di raccontare la mia esperienza e le mie aspettative: Auschwitz non era come me l’aspettavo. E come me l’aspettavo? Non so.

16649496_1371525569544765_508923661932384357_n.jpgForse mi aspettavo di vedere segni evidenti di distruzione e i pallidi riflessi dei prigionieri, ma l’unica cosa che dai film alla realtà era rimasta la stessa era il cancello d’ingresso. Quello l’ho potuto capire, perché era qualcosa che conoscevo.
Tuttavia Auschwitz sembra un ghetto con le costruzioni di mattoni rossi e le strade così larghe da permettere forse a due camionette militari di passare nello stesso tempo. C’è più silenzio che in un normale cimitero.

Ciascun edificio è diventato un museo e tutto è pulito e ben organizzato, il che fa onore al museo, ma rende il campo un po’ artificioso. Come ho già detto, appena arrivati non avevo idea di cosa avrei visto, anzi forse un’idea ce l’avevo, ma l’unica maniera che avrei avuto per realizzarla sarebbe stato visitare il campo nel 1945. Dentro un museo e dietro un vetro tutto sembra più lontano.

Abbiamo visitato diverse esposizioni, a partire dai bagni, perfettamente conservati, sulle cui pareti i prigionieri avevano dipinto scene di vita bucolica. Come i bambini di Terezin, quello che agognavano era la natura, l’innocenza e l’acqua.

Le pareti di un corridoio erano occupate da teche che custodivano scarpe di ogni forma e dimensione, ma stranamente di soli due colori, marrone e rosso impolverato. Non so spiegare perché a distanza di 70 anni quello è l’unico a non essere ancora sfumato, tuttavia mi sono chiesta se sia stato per questo motivo che il solo colore nel bianco e nero di Shindler’s List  è proprio il rosso.cattura

Agli inizi di Auschwitz tutti i prigionieri erano schedati e fotografati. Dopotutto, dovevano fare rapporto a Berlino e i nazisti hanno sempre avuto la fama di essere precisi e scrupolosi, ma a dir la verità per loro la fotografia non era solo un dovere imposto dall’alto, bensì un rudimentale mezzo per divertirsi. Rispetto alle centinaia di migliaia di prigionieri passanti per il campo, le fotografie scattate sono state meno di un decimo e la maggior parte sono state distrutte prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. Tuttavia, quelle poche salvate sono ora esposte in due padiglioni, su una parete gli uomini, sull’altra le donne.

I nostri educatori ci hanno chiesto di appuntarci il nome di un prigioniero, uno qualsiasi, uno il cui viso ci comunicava qualcosa. Io ho scelto Aurelia Bienka, perché aveva riservato al suo fotografo uno sguardo di sfida, con un minuscolo sorriso sornione. Tutti i nomi scritti sulle fascette di tessuto ci sono servite per una cerimonia al campo di Birkenau, di cui parlerò più tardi.

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Centinai di barattoli di Zyklon B, la polvere tossica usate nelle camere a gas, sono stati ritrovati intatti, pronti per l’utilizzo.

Le esposizioni di Auschwitz sono continuate in altri padiglioni assegnati alle diverse nazioni vittime dell’olocausto, in modo che ognuno potesse ricordare in maniera degna i propri morti. Non siamo rimasti affatto sorpresi nel constatare che l’unico padiglione chiuso fosse quello dell’Italia. Infatti, circa 6 anni fa sono venuti meno i fondi del progetto, mentre da un anno l’edificio è stato completamente svuotato. Considerando che l’Italia non ha mai fatto pubblica ammenda per i delitti dell’olocausto di cui è stata comunque complice, l’aver chiuso anche l’esposizione di Auschwitz non ci fa esattamente onore. 

16640657_1371544789542843_3319870972845450781_n.jpgParlando di aspettativa, Birkenau è esattamente quello che ci si aspetta quando si pensa a un campo di concentramento, forse è per questo che molti più dettagli mi sono rimasti impressi. I binari interrotti, gli scheletri delle baracche in lontananza, i camini di mattoni che nell’orizzonte si confondono con i tralicci del filo spinato.

Birkenau era un posto soltanto per i prigionieri, mentre i soldati avevano gli uffici ad Auschwitz I. Gli unici mattoni sono quelli delle case del fu paese polacco, usati per costruire 33 delle 50 ca. baracche ancora presenti.

Oltre alle 33 in mattoni ne furono costruite altre 300 000 in legno per accogliere tutti i prigionieri smistati da Auschwitz. Birkenau, infatti, è stato costruito più tardi per esigenze di “spazio” e non solo. All’inizio, Auschwitz era un campo prettamente maschile e le donne e i bambini, che erano comunque deportati, venivano uccisi al loro arrivo. In seguito Auschwitz venne divisa da un muro per separare uomini e donne, poi si decise di costruire Birkenau, per donne, bambini, polacchi, omosessuali e ancora, e ancora.

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Le baracche sono in realtà delle stalle portate dalle Germania. Usate a dovere, le stalle potevano contenere 42 cavalli, ma a Birkenau servivano a 400 prigionieri cada una. Erano un tetto sopra la testa con le pareti di spifferi e solo chi dormiva nel letto centrale della struttura a castello poteva evitarli.

Solo una cinquantina di baracche sono ancora visitabili, perché fu estremamente facile appiccare il fuoco al legno e distruggere tutto all’arrivo dell’Armata Rossa. Quello che è rimasto sono i camini. Può sembrare strana questa presenza, ma come ho già detto i nazisti erano molto scrupolosi e il riscaldamento era previsto per legge. Persino a Auschwitz c’erano i  termosifoni, spenti d’inverno e portati al massimo d’estate. A Birkenau, invece, non ci vuole un ingegnere per capire come per far funzionare quei forni si sarebbe dovuta sfidare la fisica e la legge della convezione. 

Percorrendo i binari fino in fondo fino al punto morto, lì ai vostri lati troverete ciò che resta dei forni crematori originali, collassati su se stessi dopo il tentativo di farli esplodere. Oltre i forni, invece, si trova un monumento funebre, con una serie di targhe ognuna in una lingua diversa e una enorme lapide su cui è stato inciso un piccolo triangolo cavo. La toppa che i prigionieri portavano cucita sul petto, non importa se rosa, gialla, viola, marrone o rosso.

Durante la cerimonia organizzata dal Treno della Memoria ognuno di noi ha letto al microfono il nome che aveva scelto ad Auschwitz, accompagnandolo con le parole “Io ti ricordo”. Le persone, non la classe sociale, perché anche la sofferenza del singolo merita di essere commemorata, non solo quella dello Stato.

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La cosa più difficile da fare nei campi è immaginare com’è stata la vita lì. Non intendo comprendere la fame e il freddo, ma vederlo con l’occhio della mente. Grazie alla nostra guida e alle letture degli attori abbiamo ascoltato numerose testimonianze mentre calcavano la neve del campo, ma ho trovato difficile mettermi nei panni dei prigionieri.

Come posso immaginare centinaia di corpi spogliati di ogni cosa e schiacciati in una cella 3×3? O ancora, come posso immaginare di rimanere sette e più ore al gelo, coperta solo da una tunica a righe, mentre gli ufficiali fanno la computa serale, conteggiando vivi e morti perché nessuno deve uscire dal campo e se pure uno muore mentre lavora deve essere riportato dentro a forza perché i conti devono tornare. Altrimenti dieci fucilazioni per ogni prigioniero mancante.

Siamo abituati a misurare tutto con i nostri cinque sensi: se un posto è troppo piccolo, si entra in piccoli gruppi o inizieremo a sentirci soffocati; se fa bel tempo e a Cracovia ci sono – 10°, sovrapponiamo strati e strati di vestiti. Tuttavia, in inverno la Polonia raggiungere normalmente i – 25°, io non riesco a concepirla nemmeno questa temperatura.

Le azioni e le condizione di Auschwitz, Birkenau e molti altri campi sono state, sì, disumane, ma io aggiungerei oltre l’umano. La cosa importante è questa: se non riuscite a immaginare quei luoghi, guardate bene come sono adesso.

Se non riuscite a capire da che parte vi sareste schierati, se quelle delle vittime o quella degli ignavi, pensate a dove schierarvi adesso, perché le deportazioni e i campi di concentramento e i bambini di Lidice non sono ancora scomaprsi.

Alessia xx
(ho già visitato Terezin e Lidice qui)

jayus: (indonesiano) una pessima battuta a cui non si può far a meno di ridere

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Terezin e Lidice – Den 1

Dopo una lunga e indecente pausa, dovuta più alla mancanza di tempo che di ispirazione, oggi vi parlerò di un’esperienza unica nel suo genere, a cui non avrei mai pensato di partecipare senza la fondazione del Treno della Memoria.

Da molte regioni d’Italia, compresa la Puglia, sono partiti centinaia o forse migliaia di ragazzi per visitare e testimoniare con i propri occhi i luoghi dell’olocausto. Tutto questo è stato possibile grazie alla fondazione del Treno della Memoria che ha organizzato il viaggio nei minimi particolari, sia quelli logistici che quelli artistici.

Non avrei mai pensato di visitare Auschwitz, Birkenau. Meglio dire che avrei sicuramente voluto farlo, essendo luoghi estremamente importanti per la nostra storia, ma chi deciderebbe mai di visitare quei luoghi durante le proprie vacanze, quando uno vorrebbe solo divertirsi e staccare dalla vita quotidiana? Senza questo progetto probabilmente non sarei mai andata in quei posti e alla luce delle riflessioni che ne sono scaturite, sono felice di aver colto l’occasione.

Il 23 gennaio circa 400 ragazzi sono partiti dalla Puglia, dalle varie province di Bari, Brindisi e Lecce. Prima della partenza in pullman (ahimè Trenitalia da tempo ha deciso di non rendersi disponibile per questa iniziativa con un treno che rispecchiasse almeno letteralmente il nome della fondazione), ci sono state comunicate le mete: metà del gruppo avrebbe fatto tappa a Praga (me inclusa), l’altra metà a Budapest. Quattro giorni dopo ci saremmo ritrovati tutti a Cracovia.

Viaggiare in treno sarebbe stato sicuramente più comodo, ma abbiamo accolto le 24 ore di pullman che ci aspettavano come una sorta di espiazione o introduzione al nostro viaggio. 

Ogni gruppo aveva un tema su cui riflettere durante il viaggio e con mia grande gioia sono capitata proprio nel gruppo che si sarebbe occupato di omofobia, che è uno dei temi che più mi smuove, se qualcuno ha letto altri miei articoli può già indovinarlo. Durante il viaggio abbiamo guardato “The Danish Girl” e “The Imitation Game” e li ho adorati entrambi, anche se mi sono dovuta convincere all’idea che non fosse Sherlock il protagonista del secondo.

C4FXVsxXAAAc7HF.jpgQuando siamo arrivati a Praga, nella Piazza della Città Vecchia non riuscivo a credere di trovarmi di fronte allo Staroměstský Orloj, il primo orologio astronomico costruito nel Medioevo. È stato difficile fotografarne la bellezza e tutti i particolari.

Un’altro scorcio di Praga che ho amato è stato Ponte San Carlo al tramonto, quando le statue sui parapetti si stagliavano nere, simili ad ombre inquietanti, contro il cielo violetto. C’è qualcosa nel cielo di Praga, chiamatelo inquinamento luminoso o nebbia perenne, che impedisce al cielo di essere completamente scuro anche di notte.

Il risultato è un mare privo di stelle, ma con profonde tonalità pastello, degne di un romanzo gotico con vampiri e corvi del malaugurio. Ho amato questo lato poetico del cielo praghese.

Tuttavia, non siamo andati fino in Repubblica Ceca solo per ammirare il Danubio. Il giorno dopo abbiamo visitato la città di Terezin e il vicino campo di lavoro. In quel momento ho capito che non sapevo cosa aspettarmi, letteralmente. Tutti questi luoghi vengono citati o li abbiamo visti nei film, ma in verità non sapevo molto su come erano fatti.

Terezin era, è una città ceca, strappata ai cechi e divisa in due poli, la piccola e la grande fortezza. La piccola fortezza era sempre servita come campo di concentramento per prigionieri politici, anche prima del nazismo, e lì vi è morto, dopo anni di prigionia e isolamento, Gavrilo Princip, colui che uccise l’Arciduca Francesco Ferdinando e determinò lo scoppio della prima guerra mondiale.

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Ingresso alla piccola fortezza

Nella piccola fortezza non c’è traccia di inganno o illusione. Fatta eccezione per il locale del barbiere, costruito per dare l’impressione di uno stile di vita decoroso e umano, non vi fu nemmeno un tentativo di mascherare prima i crimini politici, poi quelli dell’olocausto. A dirla tutta, non che ce ne sia mai stato il bisogno, visto come la Croce Rossa all’epoca peccò di omertà nel denunciare i fatti.

La piccola fortezza è un grumo di stanze dove noi ragazzi entravamo a malapena, ma dove ottanta anni fa venivano stipate centinaia di persone, costrette a dormire in piedi nel buio perenne e a respirare un’aria sempre più povera di ossigeno.

Il vecchio poligono di tiro era stato trasformato in un muro per le fucilazioni e si possono ancora vedere quali erano i mattoni preferiti contro cui sparare. Per raggiungere la forca, i prigionieri dovevano passare davanti agli alloggi dei soldati, guardando in faccia uomini che non provavano alcun senso di colpa.

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Il ghetto di Terezin o grande fortezza, invece, non è altro che la vecchia città ceca di Theresienstadt e ciò che mi ha sorpreso di più è il fatto che sia una città abitata. Non oserei dire viva, poiché durante il nostro passaggio noi eravamo le uniche anime in giro, ma sicuramente abitata. Oggi il ghetto sembra una normale città, silenziosa, grave. 

Qui abbiamo visitato un museo dedicato ai bambini di Terezin e ai loro famosi disegni. Alcuni rappresentavano la vita prima del campo, fatta di famiglie numerose e tavole imbandite, altre invece raffiguravano muri e filo spinato, soldati con i fucili in mano.

Quello che i bambini desideravano di più era la natura, i prati, le farfalle, le feste. Decine di disegni e di poesie, tuttavia gli autori e le autrici non erano bambini di straordinario talento, ma individui che patirono uno straordinario dolore.

Nel museo c’erano altre poesie ed altri disegni di adulti e artisti semiliberi, ma quelli che colpiscono sono sempre quelli dei bambini, perché è ingiusto sapere che ognuno di loro ha conosciuto prima del tempo, anche se un tempo del genere non dovrebbe neppure esistere, una forca o un fucile o ha rappresentato l’espressione spaventata del proprio amico con innocente crudeltà.

Famosa è la partita di calcio organizzata a Terezin inclusa nel documentario della propaganda ben riuscita del nazismo, un modo per dire che gli ebrei stavano bene e nel ghetto erano protetti. La fortezza grande era una città normale e chi avesse voluto non vedere l’avrebbe potuto fare con facilità, ma ciò che mi ha più turbato è stata l’altra parte di questa storia.

Anche la Croce Rossa avrebbe dovuto visitare, o meglio controllare le fortezze e partì proprio dal ghetto. Gli emissari avevano un tempo ben determinato per la loro ispezione, ma furono trattenuti a pranzo nel ghetto e non riuscirono ad andare alla fortezza piccola, quella priva di ogni velo, quella in cui la pantomima di Terezin non avrebbe retto alla stessa maniera.

Mi sono chiesta, perché.

Se la Croce Rossa era andata a Theresienstadt, vuol dire che aveva delle buone ragioni per farlo, per esempio genocidio, trattamento disumano, prigionia degli ebrei. Non posso credere che un ritardo abbia potuto far saltare l’ispezione della fortezza piccola. Mi fa arrabbiare inutilmente il pensiero che se la Croce Rossa avesse imposto la sua decisione, avrebbe potuto svelare più rapidamente il dramma del campo di Terezin, o forse la mia è solo l’utopia di una ragazza che non ha vissuto in quel periodo e che vede la storia a posteriori.

Dopo Terezin abbiamo visitato Lidice, l’immagine della propaganda andata a male. La città, infatti, fu rasa completamente al suolo come rappresaglia da parte dei tedeschi dopo che alcuni partigiani cechi, istruiti dalla RAF, uccisero Heydrich. Giusto per dare un’idea, Heydrich era già noto per le sue azioni come il “macellaio di Praga” e all’epoca era anche il “protettore del Raich” nel protettorato di Boemia e Moravia, di cui faceva parte Lidice durante la seconda guerra mondiale. 

In seguito all’attentato, per punire i cechi, i nazisti scelsero un paese qualsiasi sulla mappa e lo distrussero. Si dice che abbiano sparso addirittura il sale sulla terra, affinché non vi crescesse più nulla. Lidice delenda est.

Tutte quelle persona che pensavano di trovarsi al riparo, vivendo nel protettorato, non ebbero neppure il tempo di fare i conti con la morte che li falciò. Gli uomini vennero fucilati senza sosta, così che i cadaveri si ammassavano l’uno sull’altro e i nuovi condannati potevano vedere annunciata la loro fine prima del colpo. Le donne vennero mandate nei campi di sterminio e i bambini, quelli più belli, quelli più simili agli ariani, vennero mandati in Germania per l’arianizzazione. Ben presto dimenticarono la loro lingua e la loro cultura. Un intero paese venne annullato.

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Monumento in memoria dei bambini di Lidice

Fino a questo punto non credevo di ricordare tutto quanto. Ho ripercorso Terezin e Lidice come come se fossi stata presente al momento della scrittura, quella strada lì, la porta un po’ più a destra, il ghiaccio per strada. Spero di avervi trasmesso la stessa sensazione.

Alessia xx
(il mio viaggio della memoria continua qui)

hoppipolla: (islandese) saltare nelle pozzanghere

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Da grande farò la filosofa

Ultima ora di venerdì, stanca morta dopo la lezione di educazione fisica.

«E adesso chi se lo sente Kant?»

Mi era venuta la nausea a furia di parlare di giudizi sintetici a priori e se avessi sentito un’altra volta la parola sintetico mi sarei messa ad urlare. Insomma, non c’erano affatto i presupposti per stare attenti alla spiegazione.

In compenso, c’erano tutti i presupposti per essere polemici, perché se c’è una cosa che non sopporto è non capire le cose. Mi capita con i libri: se non capisco la fine, mi irrito, e non so più se sono io la stupida o lo scrittore incompetente.

«Ma perché Kant dice questo? Insomma, è un controsenso…»
«E perché non posso osare per conoscere il noumeno? Non è proprio quello lo scopo della conoscenza?»

Insomma, si trattava di domande auliche e piene di saggezza, ma ciò non toglie il fatto che fossi davvero una rompiballe a interrompere costantemente la lezione.

Mi piaceva Kant, come mi erano piaciuti altri filosofi in passato, ma ancora una volta sentivo di non capire a fondo quello che voleva dire, o comunque se anche lo capivo, avevo sempre qualche polemica sulla punta della lingua.

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Perché conoscere, per me, significa volare alto nella mente come se l’attrito dell’aria non esistesse, significa pensare l’impensabile. E non importa se precipiterò al suolo perché, per controsenso e per natura, è proprio l’aria a sostenere il mio volo: nella mia mente non potrò mai farmi male.
Ma Kant dice NO: la conoscenza non può spingersi oltre i limiti. E giù con le polemiche…

Così ho avuto un’idea.
Un’idea davvero geniale, ad avere il tempo.

Diventerò una filosofa.

Chi era Kant per essere uno dei più importanti filosofi? Era speciale? Era particolarmente acculturato o ricco? Aveva fatto la guerra? Niente di tutto questo.

Lui aveva delle idee, e anche io ho le mie.

Non sono particolarmente devota, anzi sono quella che definisco una cristiana passiva. sono stata battezzata perché i miei genitori, e i loro genitori, e i genitori dei loro genitori erano stati battezzati. Se fossi nata in un’altra nazione – se l’Alessia che sta scrivendo in questo istante, vivesse in un altro ambiente, la penserebbe diversamente da me?.

tumblr_mrbh18bjsv1r8ytr4o1_400Sono andata a messa per quanto ho dovuto, ho studiato molti filosofi in questi anni di liceo, ma nessuna teoria mi ha mai convinto perfettamente.
Sarà che sono una millenial e che non ci sono abbastanza gioie nella mia vita? Sarà, ma ho una mia filosofia.

Tutti possiamo essere filosofi, senza aver paura di pensare: chi sono io per dire questo?
Pensate che da bambino Kant avesse già in mente i giudizi sintetici a priori?

Alessia xx
(la vostra locale fonte di battute sui filosofi)

transeunte: fugace

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Valencia – Día 2

Tra le attrazioni più famose di Valencia c’è la Ciutat de les Arts i les Ciències, uno dei dodici tesori della Spagna – raggiungibile attraverso il Jardí del Turia oppure in autobus (n. 95). Non abbiate fretta – le millemila cose da vedere non scappano!

La nostra prima tappa è stato il Museo de las Ciencias Príncep Felipe.
Si tratta di un museo totalmente interattivo: non a caso il motto del museo è: «Proibito non toccare, non sentire, non pensare»

qqqqq.jpgTra i molti test interessanti, c’era questo.
Davvero non ho capito quale utilità avesse (o forse era semplicemente rotto?); so soltanto che era molto, molto inquietante. Tenevo quelle forbici con la punta della dita e mi aspettavo che da un momento all’altro il manichino prendesse vita nemmeno fosse uno zombie!

Un’area era dedicata a semplici esperimenti con lenti e getti d’aria, ed era piena di bambini: era quasi più divertente guardarli mentre gridavano «Mira! Mira!» sfrecciando da un lato all’altro del corridoio.

Una nuova esposizione è quella dedicata a Nikola Tesla, Ideas como Relámpagos, dove viene raccontata la sua vita attraverso le sue parole e quelle dei suoi sostenitori e avversari. Sono ricostruiti molti congegni di sua invenzione fino alla mostra di quelle che considero le fanart del fandom di Tesla.

Decisamente non riesco a trovare una definizione migliore.

Abbiamo poi visitato l’Hemisferic, un’enorme sala cinematografica con uno schermo concavo di ben 900 metri quadrati. Indossando dei traduttori, abbiamo visto il film El Vuelo de las Mariposas. Immagini vivide e così vicine da risultare (raramente) claustrofobiche e la storia di come fu scoperto il mistero della migrazione delle farfalle monarca.

E’ stato interessante, però – premettiamo che in gita si dorme poco o niente e che ci si sveglia sempre troppo presto, no? Premettiamo anche che le poltrone della sala erano inclinate come sedie a sdraio…
Non sapete quanta fatica ho fatto per tenere gli occhi aperti! Volevo sapere dove diamine migrassero le farfalle, ma davvero ero troppo stanza per reggere. Morale della favola: ehm, tutto il nostro gruppo si è addormentato (scusateci).

Per ultimo, siamo andati all’Oceanogràfic, il più grande acquario d’Europa.
Della struttura, non potrà che piacervi la facciata, che luccica al minimo soffio di vento, ricordandomi i pesci argentati di Alla Ricerca di Nemo. Ad essere onesti, tutta la visita è stata un’enorme riferimento a Nemo, dai pesci pagliaccio (non dovete nemmeno chiederlo!) all’aquila di mare: «Contiamo le specie, le specie, le specie | contiamo le specie che vivono nel maaar!»

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L’unica cosa che mi ha lasciato delusa è stata la vasca dei pinguini: c’era la neve finta che cadeva di tanto in tanto e il pavimento era bianco per dare l’impressione del ghiaccio. Rispetto alle altre, era la vasca in cui si notava di più la “falsità” della natura riprodotta. Insomma, quei pinguini mi hanno messo tanta tristezza 😦

Vorrei visitare il Museo de las Ciencias almeno una seconda volta, per osservare e sperimentare tutto con più calma e godermi appieno i suoi tre piani (c’è un’intera esposizione dedicata a Star Trek che ho scoperto troppo tardi) e sarebbe fantastico poter partecipare a qualcuno dei concerti e spettacoli che vengono organizzati all’aperto, avendo come sfondo il bianco e il blu delle architetture moderne e il verde del Jardí del Turia ❤️

Alexia xx
(ho già visitato Valencia qui)

aprico: esposto al sole

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Valencia – Día 1

Il giorno della partenza ovviamente pioveva e la mia mente era divisa tra le bestemmie e il mantra: «se piove qui, non pioverà lì».
Nonostante tutto, eccoci stretti nei nostri sedili, in volo per Valencia ✈️

Ho passato gran parte del volo a scattare foto ala/cielo, perché questo è il vero motivo per cui ci si siede accanto al finestrino e se non siete d’accordo, state mentendo a voi stessi.

In Spagna rinunciate all’inglese, perché in pochi lo capiscono. Se non conoscete la lingua, limitatevi all’italiano: molti spagnoli lo parlano abbastanza bene e altrettanti sono gli italiani che incontrerete.

A Valencia qualsiasi zona vogliate raggiungere, ogni dieci minuti c’è un autobus che può portarvi lì: per questo la prima cosa che vi consiglio di fare è comprare una tessera per i mezzi pubblici. E’ davvero conveniente e nel caso abbiate finito le corse o dimenticato la tessera potete sempre pagare direttamente al conducente senza correre all’ultimo minuto alla ricerca di una macchinetta. In ogni caso, Valencia non è una città smisurata e la si può visitare con comodità anche a piedi (il centro è solo a mezz’ora di camminata, altrimenti prendete l’autobus n. 62 verso Plaza de l’Ajuntament).

Día 1

Dal centro storico si nota come Valencia non segua un preciso stile, bensì più forme architettoniche vengano non solo accostate, ma anche fuse in un unico monumento, come nel caso della Cattedrale. Sul lato che si affaccia su Plaza de la Reina, si trova un campanile alto più di 50 metri chiamato Miguelete: una scalinata porta fino in cima dove si trovano undici enormi campane, una sfacchinata che sicuramente li vale tutti, quei suoi 207 scalini!

Invece, sul lato che si affaccia su Plaza de La Virgen, davanti alla Puerta de los Apóstoles, ogni giovedì a mezzogiorno è organizzato il Tribunales de las Aguas. Dichiarato patrimonio intangibile dell’umanità dall’UNESCO, si tratta di un vero e proprio tribunale, uno dei più antichi al mondo, con il compito di risolvere le controversie dovute all’acqua destinata alle irrigazioni.

Sempre in Plaza de La Virgen, si trova la Fuente de Rio Turia, che rappresenta un uomo barbuto su un piedistallo – appunto il fiume Turia – circondato da otto ragazze – i canali d’irrigazione affluenti.

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Poco lontano è il Mercado Central, un grande mercato coperto caratterizzato da un’architettura moderna e vetrate colorate: un’atmosfera da fiera!

Dopo la visita nel centro storico, abbiamo pranzato in un locale spagnolo chiamato 100 montaditos: 100 diversi piccoli panini – i montaditos – serviti con nachos e guacamole e sangria che scende come acqua. Scrivete la vostra ordinazione, lasciate il vostro nome e tempo quarto d’ora vi sentirete chiamare: «Alexia, por favor!» 100-montaditos-franchising.jpg(gli spagnoli proprio non capiscono le due s del mio nome, ma non mi dispiace). Uno dei migliori locali dove abbia mangiato che fortunatamente esiste anche in Italia: Roma, Milano, Pescara (ma non a Bari, a quanto pare, ah!).

A Valencia ci sono diverse stazioni per affittare biciclette (ValenciaBikes, ValenBiCi). Nel pomeriggio infatti abbiamo noleggiato le bici e abbiamo percorso tutto il Jardí del Turia. No, non vi state confondendo, si tratta esattamente dello stesso fiume Turia di prima.

Nel passato il fiume attraversava Valencia, ma a causa delle frequenti piene che lo facevano straripare, si decise di deviarne il flusso. Oggi, il letto asciutto del fiume ospita un parco unico nel suo genere che si snoda lungo tutta la città, dove potete trovare grandi spazi verdi, attrezzature sportive e auditorium a cielo aperto.

A un capo del giardino c’è il Bioparc, dall’altra parte c’è la Ciutat de les Arts i les Ciències e proseguendo oltre si può raggiungere il porto e la spiaggia. Il parco è percorribile a piedi e in bici, grazie a una pista ciclabile che si collega senza interruzioni al centro cittadino.

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Non essendo esperti della città e – personalmente – non avendo assolutamente senso dell’orientamento, alla fine ci siamo persi. Seguendo la pista ciclabile siamo finiti su una strada in controsenso, sicuri del fatto che sicuramente per le bici non c’è un senso di marcia, giusto?

Ovviamente eravamo controsenso anche sulla pista ciclabile e lo abbiamo intuito da un ciclista che ci ha guardato seriamente traumatizzato! Come se non fosse bastato, in quel momento un autobus a due piani stava svoltando nella nostra direzione: dire che già mi immaginavo spiaccicata contro il parapetto del ponte è un eufemismo. Ma sono sopravvissuta!

Si può percorrere in bici tutto il Jardí del Turia in quasi 3 ore, ma il tempo scorrerà così velocemente che non ve accorgerete. E’ davvero uno dei luoghi più belli di tutta Valencia: si può fare sport, ci si può semplicemente rilassare ed è frequentato a tutte le ore: alle 10 di sera c’è ancora chi fa jogging o si esercita per qualche gara di ballo.
Dopo aver visto Valencia, credo fermamente che se ogni città avesse un parco bello e organizzato almeno quanto la metà del Jardí del Turia, tutti sarebbero più felici.

Alexia xx
(la mia visita di Valencia continua qui)

aporia: dubbio, difficoltà logica